bruciano crudelmente sul tuo rogo
i nostri cuccioli di cane
bruciano i nostri puledri
nati a primavera
e i nostri prigionieri
non ancora uomini
sul tuo rogo
tutta la bellezza brucia
e la tenerezza del mondo
insieme alla mia pietà morta
divora la bestia del fuoco
tutto il miele il pianto
e l'olio e il vino
ti divora la bestia sibilando
fino ai sassi delle ossa
cenere le trecce
la bocca il volto
cenere il tuo corpo
unica pace
mi lascia nudo
all'immensa notte
della guerra
sabato 12 dicembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
Selva di Valdiporro
La selva che si scuote al vento triste
e potente dell’alba a diversa
compagine stretta
di alberi in immagini
chiusa sul pendio chiude le viste
trapelanti a squarci a brandelli
di altre case ferme sul crinale.
Solo questo breve bosco insiste
tra questa casa le case una strada
silenziosa nel paese
tra gli alberi bruciano le voci invisibili
di foglie marcite
e fra poco sepolte
nella scena recinta infinita.
e potente dell’alba a diversa
compagine stretta
di alberi in immagini
chiusa sul pendio chiude le viste
trapelanti a squarci a brandelli
di altre case ferme sul crinale.
Solo questo breve bosco insiste
tra questa casa le case una strada
silenziosa nel paese
tra gli alberi bruciano le voci invisibili
di foglie marcite
e fra poco sepolte
nella scena recinta infinita.
Un paesaggio virgiliano in Frontiera di Vittorio Sereni
Ecco le voci cadono e gli amici
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.
Vittorio Sereni
Alla fine della IX ecloga delle Bucoliche, quando dopo la sentenza “Omnia fert aetas, animum quoque” del v. 51, resa da Canali (BUR 1978, certo una data che impedisce che la traduzione possa aver pesato per Sereni) con “Il tempo rapisce tutto, anche la memoria” si apre uno scenario di silenzio, “Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes, / adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae” (vv. 57-58). Riconosciamo alcune sonorità e strutture dei primi versi di Ecco le voci cadono di Vittorio Sereni, in chiusa di Frontiera, 1941: “Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un grido è meno /che un murmure a chiamarli.” “Et nunc” allittera (molto più favorevole, in questo caso, una scansione scolastica del verso che ponga un accento intensivo sulla prima sillaba) in incipit con “Ecco”, “silet” e “ceciderunt” contribuiscono insieme a “le voci cadono”, “aequor”, che non è mare né lago in Virgilio, può ricordare il lago del testo di Sereni, e da “murmuris” si arriva, anche se con possibili mediazioni pascoliane o montaliane, al latinismo di “murmure”. Cioè dal dialogo malinconico e stupito di Lìcida e Meri sui campi espropriati, sull’assenza di Menalca, sul trascorrere del tempo, alle voci perdute di un convito di amici, “una delle pallide immagini che della morte ci facciamo” (Discorso di Capo d’Anno, “Campo di Marte”, gennaio 1939). Lo svanito mormorio del vento è tutto portato all’umano e alluso nel sommesso “murmure”, termine di confronto del debole grido che chiama gli amici scomparsi. Il “sorriso limpido e funesto” dei versi successivi è forse il “sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine” dell’amica poetessa Piera Badoni, ispiratrice di molti testi del libro (lettera a Giancarlo Vigorelli del 6 marzo 1941). Una scena che prepara quella (pure, per alcuni aspetti, “virgiliana”), di Niccolò, nell’ultimo libro di Sereni.
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.
Vittorio Sereni
Alla fine della IX ecloga delle Bucoliche, quando dopo la sentenza “Omnia fert aetas, animum quoque” del v. 51, resa da Canali (BUR 1978, certo una data che impedisce che la traduzione possa aver pesato per Sereni) con “Il tempo rapisce tutto, anche la memoria” si apre uno scenario di silenzio, “Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes, / adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae” (vv. 57-58). Riconosciamo alcune sonorità e strutture dei primi versi di Ecco le voci cadono di Vittorio Sereni, in chiusa di Frontiera, 1941: “Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un grido è meno /che un murmure a chiamarli.” “Et nunc” allittera (molto più favorevole, in questo caso, una scansione scolastica del verso che ponga un accento intensivo sulla prima sillaba) in incipit con “Ecco”, “silet” e “ceciderunt” contribuiscono insieme a “le voci cadono”, “aequor”, che non è mare né lago in Virgilio, può ricordare il lago del testo di Sereni, e da “murmuris” si arriva, anche se con possibili mediazioni pascoliane o montaliane, al latinismo di “murmure”. Cioè dal dialogo malinconico e stupito di Lìcida e Meri sui campi espropriati, sull’assenza di Menalca, sul trascorrere del tempo, alle voci perdute di un convito di amici, “una delle pallide immagini che della morte ci facciamo” (Discorso di Capo d’Anno, “Campo di Marte”, gennaio 1939). Lo svanito mormorio del vento è tutto portato all’umano e alluso nel sommesso “murmure”, termine di confronto del debole grido che chiama gli amici scomparsi. Il “sorriso limpido e funesto” dei versi successivi è forse il “sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine” dell’amica poetessa Piera Badoni, ispiratrice di molti testi del libro (lettera a Giancarlo Vigorelli del 6 marzo 1941). Una scena che prepara quella (pure, per alcuni aspetti, “virgiliana”), di Niccolò, nell’ultimo libro di Sereni.
sabato 7 novembre 2009
Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
Guido Cavalcanti
a Guido Cavalcanti
siamo lo schermo, il corpo, questa luce
che dolorosamente taglia la scrittura
siamo il triste alfabeto che scolora.
Vattene dico alla parola, cosa dubbiosa lasciami
cancella subito me stessa
fai che un'altra ti prenda e ti raccolga
che mi sgombri dal tempo
e faccia nulla della mia persona
- la privi come vuole di lamento -
le scavi un vuoto
aperto solo al vento.
Antonella Anedda
dai Cori apparsi su “Altroverso” n° 2, giugno 2005; poi con alcune varianti e la titolazione Coro e la dedica a R. in Dal balcone del corpo, Mondadori 2007.
Nel libro, al di là di qualche intervento di superficie sul ritmo (il lungo verso 4 diviso in due e gli ultimi due versi brevi assemblati) o sulla punteggiatura (comparso un punto al v.2, scomparsa la virgola del verso lungo poi diviso, scomparsi i trattini), cadono i termini "dolorosamente" e "triste" rendendo meno evidente la natura di rifacimento cavalcantiano di questa splendida poesia, cosa visibile ora solo in "taglia" (eco delle cesoiuzze e del coltellin), "scrittura", "parola" personificata (così come noi siamo alfabeto) e soprattutto "cosa dubbiosa". Forse troppo evidente la matrice-Cavalcanti, ma togliere i due termini, per quanto non del tutto necessari sul piano semantico (il taglio è certo doloroso, l'alfabeto che scolora è certo triste), muta radicalmente il ritmo dei versi (tredecasillabo scomponibile in 7 + 6, dove si snodava e rilevava "dolorosamente" > classico settenario; endecasillabo con due sinalefi e il pathos ridondante di "triste" > decasillabo, per fortuna non manzoniano), e il ritmo non è solo un fatto formale. Mi pare che, rinunciando ad una tonalità patetica accentuata ed esibita, si tenda ad una maggior secchezza di enunciato, che tiene tutto implicito: in questo senso anche il lavoro sulla punteggiatura assume rilevanza. Al di là di queste considerazioni il giudizio sarebbe del tutto soggettivo (o meglio avrebbe ragioni più profonde o sottili che qui non serve approfondire), ed è in entrambi i casi una bellissima poesia. Il libro andrebbe letto e capito meglio di quanto finora sia stato fatto, ad esempio chiedendosi il perché dei "Cori" che si intercalano agli altri testi.
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
Guido Cavalcanti
a Guido Cavalcanti
siamo lo schermo, il corpo, questa luce
che dolorosamente taglia la scrittura
siamo il triste alfabeto che scolora.
Vattene dico alla parola, cosa dubbiosa lasciami
cancella subito me stessa
fai che un'altra ti prenda e ti raccolga
che mi sgombri dal tempo
e faccia nulla della mia persona
- la privi come vuole di lamento -
le scavi un vuoto
aperto solo al vento.
Antonella Anedda
dai Cori apparsi su “Altroverso” n° 2, giugno 2005; poi con alcune varianti e la titolazione Coro e la dedica a R. in Dal balcone del corpo, Mondadori 2007.
Nel libro, al di là di qualche intervento di superficie sul ritmo (il lungo verso 4 diviso in due e gli ultimi due versi brevi assemblati) o sulla punteggiatura (comparso un punto al v.2, scomparsa la virgola del verso lungo poi diviso, scomparsi i trattini), cadono i termini "dolorosamente" e "triste" rendendo meno evidente la natura di rifacimento cavalcantiano di questa splendida poesia, cosa visibile ora solo in "taglia" (eco delle cesoiuzze e del coltellin), "scrittura", "parola" personificata (così come noi siamo alfabeto) e soprattutto "cosa dubbiosa". Forse troppo evidente la matrice-Cavalcanti, ma togliere i due termini, per quanto non del tutto necessari sul piano semantico (il taglio è certo doloroso, l'alfabeto che scolora è certo triste), muta radicalmente il ritmo dei versi (tredecasillabo scomponibile in 7 + 6, dove si snodava e rilevava "dolorosamente" > classico settenario; endecasillabo con due sinalefi e il pathos ridondante di "triste" > decasillabo, per fortuna non manzoniano), e il ritmo non è solo un fatto formale. Mi pare che, rinunciando ad una tonalità patetica accentuata ed esibita, si tenda ad una maggior secchezza di enunciato, che tiene tutto implicito: in questo senso anche il lavoro sulla punteggiatura assume rilevanza. Al di là di queste considerazioni il giudizio sarebbe del tutto soggettivo (o meglio avrebbe ragioni più profonde o sottili che qui non serve approfondire), ed è in entrambi i casi una bellissima poesia. Il libro andrebbe letto e capito meglio di quanto finora sia stato fatto, ad esempio chiedendosi il perché dei "Cori" che si intercalano agli altri testi.
giovedì 5 novembre 2009
Colori e forme frane
fanno zanne
esprimono
o covano
espiano
*
Colori e forme frane
hanno zanne
esprimono
o covano
espiano
disseccati
sotto
sputi
di Arpie
fanno zanne
esprimono
o covano
espiano
*
Colori e forme frane
hanno zanne
esprimono
o covano
espiano
disseccati
sotto
sputi
di Arpie
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Andrea Zanzotto,
da "Conglomerati",
Mondadori 2009
martedì 3 novembre 2009
Nota a "Nel cerchio di un pensiero" di Alda Merini, Crocetti editore, 2005
A qualche anno di distanza dall'uscita del libro, pubblico qui come omaggio ad Alda Merini la Nota finale, frutto di un lavoro di cura del testo condiviso con colleghi e amici (Marco Campedelli, grande amico della poetessa e ideatore del libro; Massimo Natale, giovane ma già brillante studioso; Roberto Fattore, autore della bella Prefazione al testo) e guidato da rigore e passione.
- La cura dei testi qui raccolti nell'ordine cronologico in cui sono stati dettati, è stata condotta in gruppo, da un gruppo di quattro amici e lettori, come dialogo reattivo alle potenzialità dei testi, come scoperta della pluralità contenuta nel flusso così unitario e personale della voce di Alda Merini, come comprensione appunto del nascere della poesia, non dal nulla (forse dal caos, come ha scritto di sé) ma dalla trama oscura di una vita. La quasi totalità delle poesie è stata dettata al telefono da Alda Merini al suo amico e interlocutore privilegiato don Marco Campedelli, della parrocchia di San Nicolò in Verona.
Potrei dire che la nostra condivisione è stata una dote della solitudine della sua parola, una eco del suo esibito mistero; a loro volta i nostri quattro diversi sguardi sul testo ne hanno fatto riecheggiare potenzialità, gesti in ombra, altre voci.
Colpisce nel libro la sincerità di una voce, che non costruisce versi per eufonie o ricerca di letterarietà: quelli che potrebbero, per prosasticità e normalità del dettato, essere detti "non versi", si giustificano nel complesso, nel peso o caratura del discorso fatto alla persona che ascolta. La concretezza del parlare (del "dittare") della Merini, ascoltata improvvisare poesie al telefono, è capace di ogni varietà, dentro e al di fuori della poesia, contro i luoghi comuni pubblici su di lei (la pazza, la santa, l'invasata profetica). Queste parole sospese nell’arco di una conversazione, affermazioni o domande o recriminazioni sono realtà ancora più piena che le parole nate nella scrittura silenziosa sulla carta: abitano più livelli di realtà, o meglio rispetto alla poesia scritta compiono il percorso inverso, dalla voce alla pagina. Sono parole e discorsi, come può accadere in un dialogo carico di sensi e sentimenti contrastanti, insieme delicati e terribili; parole dolorosamente senza dubbi (come l'autrice afferma nel testo qui posto a chiudere il libro, dove la voce diviene quella di Amleto) e quindi totalmente divaricate ed esposte alla tenaglia di amore e odio (sono tale tenaglia), aperte alla profezia e all'angoscia (già secondo Maria Corti nell'Introduzione al Fiore di poesia).
Si diceva di una pluralità presente nei testi. Crediamo sia legata alla natura della sua voce, corporea (perché orale, perché relativa a situazioni concrete, del vissuto quotidiano e biologico-psicologico) e intimamente dialogica; il verso, nascente all'improvviso all'interno della conversazione, come rottura e riflessione/elaborazione lirica di essa su un piano diverso, ha misure che coincidono col respiro e le sue pause, fisiche e meditative. Per questi motivi non è forse in realtà corretto parlare di improvvisazione: Alda Merini non è attrice che reciti né poeta in gara o in esibizione davanti ad un pubblico, né una professionista della narrazione aedica, né una dilettante da esecuzione sommaria, se ci si perdona la battuta. La sua vocazione lirica e al monologo o recitativo drammatico appare in lei come un dato di natura progressivamente chiaritosi o evolutosi, legato alla percezione della vita come teatro di un accadere tragico ("siamo rimasti noi / sul carro di mangiafuoco. / La carne frustata dagli anni / lievita in forma di pane", in un suo Pulcinoelefante del 2004), eternamente rivissuto e agito in un teatro interiore e da lì rigettato, sotto il controllo di una lucida visione mentale, nella vita. Le radici di tale vocazione stanno forse, da un punto di vista religioso, in un dialogo-identificazione col Cristo vittima (come doveva suonare il titolo originario del Poema della croce, 2004) di un violento "carnevale della crocifissione", culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano; da un punto di vista laico e psicologico, in quella oscura "informità" iniziale e arcaica di cui scriveva Pasolini nel '54, una mancanza di senso di identità che riflette su di sé e si definisce generando al proprio interno "una mostruosa voce maschile" e un'attesa-ricerca dell'Altro (corporeo e psichico) nel mondo circostante.
Ma per restare ai fatti, da tale modalità orale, dialogica, teatrale sono provenuti anche i problemi della trascrizione, e poi della cura e presentazione del testo trascritto in vista di un'edizione, problemi che hanno richiesto una riflessione su alcuni aspetti formali. In particolare, alcuni giri di frase diversamente ricostruibili e interpretabili: a volte accade - questa una nostra ipotesi - che nella creazione orale, pausata secondo respiro e trascritta in versi che rispettano tali lunghezze, una frase (quasi sempre la frase-verso, autonoma nella sintassi e nel senso) nata in coda a una certa sequenza di discorso assuma nel breve tempo della riflessione silenziosa un nuovo ruolo incipitario per un'altra sequenza. Non per calcolo letterario: nemmeno quella che di fatto appare come inarcatura tra un verso e l'altro, abbastanza rara, spezza duramente il sintagma, ma si può prestare a tale ruolo di ripresa del discorso o essere completamento, precisazione di un concetto o immagine sospesa.
Si è deciso di non introdurre nei testi alcun segno di punteggiatura, che sarebbe una ulteriore, impropria interpretazione da parte dei curatori e che oscurerebbe la loro genesi orale, nel prodursi della quale le pause e il loro senso sono naturalmente comprensibili. Allo stesso titolo, tranne quella che apre il primo verso, non vi sono maiuscole per segnalare l'inizio di un periodo o di una sequenza di testo. Solo di fronte ad uno stacco netto, semantico e di tonalità oltre che sintattico, nel flusso del discorso e che se non segnalato potrebbe causare difficoltà rilevanti di lettura, abbiamo usato una semplice spaziatura, come una pausa più consistente. Le difficoltà nascenti invece da un'articolazione intrinseca ad una sequenza o ad uno snodo tra sequenze (vedi sopra), sono rimaste tali e quali, ma sono nella natura della poesia e non chiedono di essere risolte ma percepite e capite, rivissute per quanto possibile. Sono stati espunti o accantonati, dall'insieme dei testi qui raccolti, quelli di natura troppo personale o quelli estranei a quella che sempre più si chiariva come la tematica dominante del libro, l'amore e quanto ad esso connesso: ad esempio un gruppo di testi, anche assai belli, di ispirazione direttamente religiosa. Ma per prendere, per arrogarci il diritto di prendere queste decisioni siamo riandati al percorso dell'intera produzione poetica di Alda Merini, allo scopo di capire, anche sulla base di quanto detto e fatto da altri, in quale fase ci trovassimo e in quale direzione si stesse cercando di accompagnare i testi.
Quanto abbiamo rilevato del "dettato" meriniano e della sua storia non ci pare frutto di calcolo o di ricerca e sperimentazione formale, ma piuttosto di una ricorsività e di variazioni spontanee del ritmo, manifestazione di distinte tonalità psicologiche connesse a situazioni della vita, ruoli e personaggi precisi. Non un flusso di discorso alla ricerca di un'ossatura ritmica, o peggio di una veste metrica e retorica. Anzi una poesia nuda, non separata dall'aria (o reclusione) della vita, ritmo in sé, misura intima come quel limite-confine di sé sempre ricercato e necessario per far esistere il sé nel mondo. Ma questo limite pare disegnarsi in bilico sul crinale di due paesaggi poetici diversi.
Ci troviamo, pare, ad un bivio, tra liricità-oracolarità o spegnimento della poesia nel flusso del discorso quotidiano, bivio che forse la pluralità (la tragica contradditorietà) meriniana percorrerà senza scegliere una via sola, perché "La casa della poesia / non avrà mai porte" e nemmeno vie sicure. E questa ambivalenza pare rimandare ad un fondo sotterraneo e tragico, estremamente concreto e per nulla in sé "mistico", dove confliggono spinta alla rinascita e senso della dissoluzione, vero spessore umano di un "orfismo" (così "antinovecentesco") spesso malinteso.
Ancora una volta si tratta di un rischio totale, di una poesia che facilmente non verrà ripagata dalla vita, di una scommessa ed esposizione totale della poesia alla vita. A noi, imperfettamente, rimane il dono e la responsabilità di aver seguito una piccola parte di questo cammino. -
Luca Bragaja
- La cura dei testi qui raccolti nell'ordine cronologico in cui sono stati dettati, è stata condotta in gruppo, da un gruppo di quattro amici e lettori, come dialogo reattivo alle potenzialità dei testi, come scoperta della pluralità contenuta nel flusso così unitario e personale della voce di Alda Merini, come comprensione appunto del nascere della poesia, non dal nulla (forse dal caos, come ha scritto di sé) ma dalla trama oscura di una vita. La quasi totalità delle poesie è stata dettata al telefono da Alda Merini al suo amico e interlocutore privilegiato don Marco Campedelli, della parrocchia di San Nicolò in Verona.
Potrei dire che la nostra condivisione è stata una dote della solitudine della sua parola, una eco del suo esibito mistero; a loro volta i nostri quattro diversi sguardi sul testo ne hanno fatto riecheggiare potenzialità, gesti in ombra, altre voci.
Colpisce nel libro la sincerità di una voce, che non costruisce versi per eufonie o ricerca di letterarietà: quelli che potrebbero, per prosasticità e normalità del dettato, essere detti "non versi", si giustificano nel complesso, nel peso o caratura del discorso fatto alla persona che ascolta. La concretezza del parlare (del "dittare") della Merini, ascoltata improvvisare poesie al telefono, è capace di ogni varietà, dentro e al di fuori della poesia, contro i luoghi comuni pubblici su di lei (la pazza, la santa, l'invasata profetica). Queste parole sospese nell’arco di una conversazione, affermazioni o domande o recriminazioni sono realtà ancora più piena che le parole nate nella scrittura silenziosa sulla carta: abitano più livelli di realtà, o meglio rispetto alla poesia scritta compiono il percorso inverso, dalla voce alla pagina. Sono parole e discorsi, come può accadere in un dialogo carico di sensi e sentimenti contrastanti, insieme delicati e terribili; parole dolorosamente senza dubbi (come l'autrice afferma nel testo qui posto a chiudere il libro, dove la voce diviene quella di Amleto) e quindi totalmente divaricate ed esposte alla tenaglia di amore e odio (sono tale tenaglia), aperte alla profezia e all'angoscia (già secondo Maria Corti nell'Introduzione al Fiore di poesia).
Si diceva di una pluralità presente nei testi. Crediamo sia legata alla natura della sua voce, corporea (perché orale, perché relativa a situazioni concrete, del vissuto quotidiano e biologico-psicologico) e intimamente dialogica; il verso, nascente all'improvviso all'interno della conversazione, come rottura e riflessione/elaborazione lirica di essa su un piano diverso, ha misure che coincidono col respiro e le sue pause, fisiche e meditative. Per questi motivi non è forse in realtà corretto parlare di improvvisazione: Alda Merini non è attrice che reciti né poeta in gara o in esibizione davanti ad un pubblico, né una professionista della narrazione aedica, né una dilettante da esecuzione sommaria, se ci si perdona la battuta. La sua vocazione lirica e al monologo o recitativo drammatico appare in lei come un dato di natura progressivamente chiaritosi o evolutosi, legato alla percezione della vita come teatro di un accadere tragico ("siamo rimasti noi / sul carro di mangiafuoco. / La carne frustata dagli anni / lievita in forma di pane", in un suo Pulcinoelefante del 2004), eternamente rivissuto e agito in un teatro interiore e da lì rigettato, sotto il controllo di una lucida visione mentale, nella vita. Le radici di tale vocazione stanno forse, da un punto di vista religioso, in un dialogo-identificazione col Cristo vittima (come doveva suonare il titolo originario del Poema della croce, 2004) di un violento "carnevale della crocifissione", culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano; da un punto di vista laico e psicologico, in quella oscura "informità" iniziale e arcaica di cui scriveva Pasolini nel '54, una mancanza di senso di identità che riflette su di sé e si definisce generando al proprio interno "una mostruosa voce maschile" e un'attesa-ricerca dell'Altro (corporeo e psichico) nel mondo circostante.
Ma per restare ai fatti, da tale modalità orale, dialogica, teatrale sono provenuti anche i problemi della trascrizione, e poi della cura e presentazione del testo trascritto in vista di un'edizione, problemi che hanno richiesto una riflessione su alcuni aspetti formali. In particolare, alcuni giri di frase diversamente ricostruibili e interpretabili: a volte accade - questa una nostra ipotesi - che nella creazione orale, pausata secondo respiro e trascritta in versi che rispettano tali lunghezze, una frase (quasi sempre la frase-verso, autonoma nella sintassi e nel senso) nata in coda a una certa sequenza di discorso assuma nel breve tempo della riflessione silenziosa un nuovo ruolo incipitario per un'altra sequenza. Non per calcolo letterario: nemmeno quella che di fatto appare come inarcatura tra un verso e l'altro, abbastanza rara, spezza duramente il sintagma, ma si può prestare a tale ruolo di ripresa del discorso o essere completamento, precisazione di un concetto o immagine sospesa.
Si è deciso di non introdurre nei testi alcun segno di punteggiatura, che sarebbe una ulteriore, impropria interpretazione da parte dei curatori e che oscurerebbe la loro genesi orale, nel prodursi della quale le pause e il loro senso sono naturalmente comprensibili. Allo stesso titolo, tranne quella che apre il primo verso, non vi sono maiuscole per segnalare l'inizio di un periodo o di una sequenza di testo. Solo di fronte ad uno stacco netto, semantico e di tonalità oltre che sintattico, nel flusso del discorso e che se non segnalato potrebbe causare difficoltà rilevanti di lettura, abbiamo usato una semplice spaziatura, come una pausa più consistente. Le difficoltà nascenti invece da un'articolazione intrinseca ad una sequenza o ad uno snodo tra sequenze (vedi sopra), sono rimaste tali e quali, ma sono nella natura della poesia e non chiedono di essere risolte ma percepite e capite, rivissute per quanto possibile. Sono stati espunti o accantonati, dall'insieme dei testi qui raccolti, quelli di natura troppo personale o quelli estranei a quella che sempre più si chiariva come la tematica dominante del libro, l'amore e quanto ad esso connesso: ad esempio un gruppo di testi, anche assai belli, di ispirazione direttamente religiosa. Ma per prendere, per arrogarci il diritto di prendere queste decisioni siamo riandati al percorso dell'intera produzione poetica di Alda Merini, allo scopo di capire, anche sulla base di quanto detto e fatto da altri, in quale fase ci trovassimo e in quale direzione si stesse cercando di accompagnare i testi.
Quanto abbiamo rilevato del "dettato" meriniano e della sua storia non ci pare frutto di calcolo o di ricerca e sperimentazione formale, ma piuttosto di una ricorsività e di variazioni spontanee del ritmo, manifestazione di distinte tonalità psicologiche connesse a situazioni della vita, ruoli e personaggi precisi. Non un flusso di discorso alla ricerca di un'ossatura ritmica, o peggio di una veste metrica e retorica. Anzi una poesia nuda, non separata dall'aria (o reclusione) della vita, ritmo in sé, misura intima come quel limite-confine di sé sempre ricercato e necessario per far esistere il sé nel mondo. Ma questo limite pare disegnarsi in bilico sul crinale di due paesaggi poetici diversi.
Ci troviamo, pare, ad un bivio, tra liricità-oracolarità o spegnimento della poesia nel flusso del discorso quotidiano, bivio che forse la pluralità (la tragica contradditorietà) meriniana percorrerà senza scegliere una via sola, perché "La casa della poesia / non avrà mai porte" e nemmeno vie sicure. E questa ambivalenza pare rimandare ad un fondo sotterraneo e tragico, estremamente concreto e per nulla in sé "mistico", dove confliggono spinta alla rinascita e senso della dissoluzione, vero spessore umano di un "orfismo" (così "antinovecentesco") spesso malinteso.
Ancora una volta si tratta di un rischio totale, di una poesia che facilmente non verrà ripagata dalla vita, di una scommessa ed esposizione totale della poesia alla vita. A noi, imperfettamente, rimane il dono e la responsabilità di aver seguito una piccola parte di questo cammino. -
Luca Bragaja
domenica 1 novembre 2009
In memoriam A.M. - Il primo testo risale a qualche anno fa, quando stavamo lavorando al libro della Merini; il secondo è il vero testo per lei.
Nel fuoco stinto di un'ora
c'era il muschio che chiamano létego e gli stracci
resti di frutta e altro nel Naviglio asciutto
niente di così diverso dalla sua casa
buca segreta nel fragore scavato
fino là dove i palazzi di Milano
sono piccoli e dorati nell'azzurro.
(2004, dopo una visita ad A.M.)
In memoriam A.M.
Quando è morta Alda Merini
il natale dell’immaginazione ha liberato
sottili sfere di canto
e una voce sola ha ripetuto
non è più, non è più
come l’ultimo migratore ancora
aggomitolato nell’incanto dell’autunno
prima di partire
per una primavera
2 novembre 2009
c'era il muschio che chiamano létego e gli stracci
resti di frutta e altro nel Naviglio asciutto
niente di così diverso dalla sua casa
buca segreta nel fragore scavato
fino là dove i palazzi di Milano
sono piccoli e dorati nell'azzurro.
(2004, dopo una visita ad A.M.)
In memoriam A.M.
Quando è morta Alda Merini
il natale dell’immaginazione ha liberato
sottili sfere di canto
e una voce sola ha ripetuto
non è più, non è più
come l’ultimo migratore ancora
aggomitolato nell’incanto dell’autunno
prima di partire
per una primavera
2 novembre 2009
lunedì 26 ottobre 2009
Credenze
Chi crede che un orizzonte gli si svolga dietro come per caso
ma obbediente alla richiesta del suo sguardo e che altrimenti
l’essenza presunta della realtà si dissolva
e voli come nevischio o sabbia da un telo sbattuto
lasciando il vuoto o, meglio o peggio che sia, rivelandosi nulla
non ha visto (casualità dello sguardo!) alle spalle
magari in uno specchietto retrovisore le montagne
con la loro neve, battute dalla luce
residua diffusa ancora
nella necessità
le montagne che erano già lì perché dovevano essere
viste o non viste
da una strada persa di città
così lei nella memoria che la desidera ed erra
per il ricordo del suo sorriso
perché solo la memoria disfà la propria figura ma resta tormento
così le parole che arrivano solo improvvise, rotte
per distrazione le barriere
di paura abitudine sfiducia e della vita in generale
ma ogni rivelazione l’istante dopo
è un peso da trascinare e diciamo pure stupida
scrittura (distesa nel biancore, a dormire affondando
nella sabbia ogni segno col suo mistero
che non vale la pena)
Ma questo è più importante, l’unica cosa qui capìta:
l’impossibile è la necessità
che non può essere e non è
qui, dove ha luogo l’impensabile.
(Eppure, dopo molto silenzio di spazio percorso.
In un luogo non più felice, non più reale di questo...)
ma obbediente alla richiesta del suo sguardo e che altrimenti
l’essenza presunta della realtà si dissolva
e voli come nevischio o sabbia da un telo sbattuto
lasciando il vuoto o, meglio o peggio che sia, rivelandosi nulla
non ha visto (casualità dello sguardo!) alle spalle
magari in uno specchietto retrovisore le montagne
con la loro neve, battute dalla luce
residua diffusa ancora
nella necessità
le montagne che erano già lì perché dovevano essere
viste o non viste
da una strada persa di città
così lei nella memoria che la desidera ed erra
per il ricordo del suo sorriso
perché solo la memoria disfà la propria figura ma resta tormento
così le parole che arrivano solo improvvise, rotte
per distrazione le barriere
di paura abitudine sfiducia e della vita in generale
ma ogni rivelazione l’istante dopo
è un peso da trascinare e diciamo pure stupida
scrittura (distesa nel biancore, a dormire affondando
nella sabbia ogni segno col suo mistero
che non vale la pena)
Ma questo è più importante, l’unica cosa qui capìta:
l’impossibile è la necessità
che non può essere e non è
qui, dove ha luogo l’impensabile.
(Eppure, dopo molto silenzio di spazio percorso.
In un luogo non più felice, non più reale di questo...)
domenica 25 ottobre 2009
Mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch'è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce chiamantemi a cena; onde allora mi parve un niente la vita nostra e il tempo e i nomi celebri e tutta la storia ec.
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dagli appunti e ricordi di Giacomo Leopardi
I cocai
I cocai
sono fermi sulla ghiaia che splende
splende al centro della corrente increspata
uno solo sorvola brevi isole verdi
e rivede i suoi regni per loro
l’istante la giovinezza sempre
finisce in sé sempre il tempo fa
durare l’aria contro le ali
sono fermi sulla ghiaia che splende
splende al centro della corrente increspata
uno solo sorvola brevi isole verdi
e rivede i suoi regni per loro
l’istante la giovinezza sempre
finisce in sé sempre il tempo fa
durare l’aria contro le ali
La strada che sale (perifrasi di immagini)
Nel cuneo prospettico dell’autostrada attraverso la selva Ercinia grondante di vento si apre la forma del futuro, parola del passato è il riflesso più chiaro del cielo attorno all’ombra della testa. E come meditare su un’altra scena che inspiegabilmente sbalzata fino a noi, a portata quasi di mano si congiunge alla primaria per semplici linee di commessura? Il tempo morde le linee che attraversano gli istanti.
Bisogna avere affetto per la campitura laccata e sensibile alla luce obliqua che si rileva sul riquadro dell’immagine. Bisogna ricordare, dietro una garza di tenue affanno domenicale, quel cielo, quell’ora, l’edificio non più anonimo, quando tu fosti tu e ogni riflesso o vibrazione o sillaba di nuvola era vita. A destra la strada di forti ombre in controsole conduce al Foro. Al centro, in fondo, una guglia, gente qualsiasi in maglietta che cammina, il candore del sogno. Tutto è attraversato dalla misura.
In quali mondi – è scesa la vivace ombra - la mano da qui invisibile contro il finestrino – il calore ocra del cemento solo immaginato passando rapidi, chi si fermerebbe lì? Eppure anche lì. Altri mondi, dietro, in alto. L’azzurro e il bianco che non avrai mai. Nel tempo. Niente fuori del tempo. Su tutto, la luce della mia assenza.
Sulle immagini
Le immagini più costanti sono recinti ben chiusi, senza più rapporto con questo tempo. Di loro proviene a sera o nella pietra dell’attimo diurno lo spettro, dissolto quando interseca l’altra luce e intercetta i colpi degli altri morti spettri. Andargli incontro è rivedere quella bandiera che sbatteva alla mattina lucente del mare, il sapore dell’aria le luci fitte ogni sera lungo la costa ricordanti altre luci – quando c’era il futuro? Ora c’è questo gesto frainteso e nudo, un panno steso nell’aria verde, solo il pensiero di un pensiero, eppure: ogni strada ti inganna, ogni giorno la credi la stessa e con doppia illusione memoria e presente ti accecano, ma qualcosa anche a me si fa incontro da questo paesaggio e nelle ipotesi dei nomi il vento batte, contro i muri sempre uguali di polvere lucida, da una finestra aperta al tempo di fuori.
Se il deserto del mare, tormentato dal vento che spazza questa lingua di terra, è la brughiera dove non compare traccia umana – se non questo avamposto arretrato alle spalle della sabbia e dei cavalli di frisia – e se la spuma delle onde sono rocce affioranti dalle ere trascorse invano fino a questo istante: allora ben oltre i montanti rettilinei, lucidi e nettamente sagomati del mio attimo (vere strade della conoscenza autosufficiente) là in alto sul mare di spuma e di erica la lettera di un gabbiano forse non vede questo fianco a noi rivolto dell’enorme serpe uroboro delle dune, ma ne conosce volando l’inizio e la fine.
Ciò che vedo è l’altrove del luogo – la casa – dove sono stato felice, o forse la sua interna possibilità di essere più pienamente sé, come si crede spesso di se stessi. Ma l’unico modo che la vita conosce di essere pienamente sé, è essere alla luce del sole la propria mancanza. In quale punto dello spazio si fissa, proiettata all’infinito, l’intelaiatura sfocata della finestra? Nel vetro è oltre il vetro e l’oltre è il prima e il dopo. Nonostante questo le case sono case, sagome più oscure o più chiare, un pioppo trema come in un affresco su una superficie d’acqua, o su un vuoto; dal tendaggio bianco sostenuto a un chiodo – la giacca di un fantasma, erompono intrichi d’alberi nudi - vampe traslucide di dendriti. Non oltre, solo nel grigio del cielo, lungo quel sentiero riquadrato dal riflesso di un riflesso, che cosa? Non l’eco dell’illusione di allora, quando invece l’infinita possibilità perduta, la pace e l’ansia domenicali della famiglia dissolta. Senza parole la freschezza della menzogna della vita, solo un brusio, la scena della festa sognata nella scena vera, il bianco. So che in questo altrove loro non sono, lei non è, loro non saranno.
(senza fotografia)
Sono entrati con Eleonora a cercare una maglia per un regalo.
Via IV novembre, un viale lungo e largo, con pochi alberi dall’ordine dei marciapiedi,
sa ancora di vacanza un pomeriggio ai primi di settembre.
Residenziale, negozi, non ancora centro ma con importanza
(e chi non lo sa a Verona?) unisce
piazza Vittorio Veneto, grandi chiome e orribile chiesa,
a piazzale Cadorna (possibile parcheggio scambiatore) e al ponte che scavalca l’Adige
coi suoi cavalli di ferro. Fermo nell’auto parcheggiata
vedo riflesso nella finestra di un piano rialzato il sole
sospeso sul tetto di un palazzo dall’altra parte della strada.
Un cerchio ribattuto, una lastra percorsa da poche striature lucenti,
la parte oscura e netta che ci riguarda, sotto.
Da un balcone su questo lato, più in alto, proprio sopra il supermercato,
rami e foglie di grandi piante in vaso si protendono,
vibrano, danno colore e speranza all’aria.
Come ogni luogo anche qui può essere migliore
e riflettersi in sé e riprodursi nitido e invisibile
in una distanza sognata. Come queste piante felici
così triste è vedere gli addii che si ripetono
senza sapere di essere già stati detti, molto
molto tempo fa. Senza sapere di essere addii.
Così è la fine dell’infanzia
che continua a sperare, già nella sofferenza,
prima dell’infanzia vera (vera?) che non ci sarà.
Tutto il valore, più che in questa grandezza lontana di un bianco quasi notturno, nei particolari distinti e minimi: luci, la sagoma di una casa, i passi di un filare d’alberi sul crinale: non sanno, solo da qui sappiamo che coesistono con la risonanza di marosi di nubi e con gli strati di cielo, abbagli di lagune. Uno spigolo, antenne sfocate, la torre di un palazzo in basso appaiono da dietro, riflessi da un’altra finestra, sono il mondo di quelle nuvole, il cupo della città ricordata. Anche il non ricordarsi può essere preciso, il presente, la presa delle cose. Ma la neve così oscura e bianca, e nel buio infinite parole.
Bisogna avere affetto per la campitura laccata e sensibile alla luce obliqua che si rileva sul riquadro dell’immagine. Bisogna ricordare, dietro una garza di tenue affanno domenicale, quel cielo, quell’ora, l’edificio non più anonimo, quando tu fosti tu e ogni riflesso o vibrazione o sillaba di nuvola era vita. A destra la strada di forti ombre in controsole conduce al Foro. Al centro, in fondo, una guglia, gente qualsiasi in maglietta che cammina, il candore del sogno. Tutto è attraversato dalla misura.
In quali mondi – è scesa la vivace ombra - la mano da qui invisibile contro il finestrino – il calore ocra del cemento solo immaginato passando rapidi, chi si fermerebbe lì? Eppure anche lì. Altri mondi, dietro, in alto. L’azzurro e il bianco che non avrai mai. Nel tempo. Niente fuori del tempo. Su tutto, la luce della mia assenza.
Sulle immagini
Le immagini più costanti sono recinti ben chiusi, senza più rapporto con questo tempo. Di loro proviene a sera o nella pietra dell’attimo diurno lo spettro, dissolto quando interseca l’altra luce e intercetta i colpi degli altri morti spettri. Andargli incontro è rivedere quella bandiera che sbatteva alla mattina lucente del mare, il sapore dell’aria le luci fitte ogni sera lungo la costa ricordanti altre luci – quando c’era il futuro? Ora c’è questo gesto frainteso e nudo, un panno steso nell’aria verde, solo il pensiero di un pensiero, eppure: ogni strada ti inganna, ogni giorno la credi la stessa e con doppia illusione memoria e presente ti accecano, ma qualcosa anche a me si fa incontro da questo paesaggio e nelle ipotesi dei nomi il vento batte, contro i muri sempre uguali di polvere lucida, da una finestra aperta al tempo di fuori.
Se il deserto del mare, tormentato dal vento che spazza questa lingua di terra, è la brughiera dove non compare traccia umana – se non questo avamposto arretrato alle spalle della sabbia e dei cavalli di frisia – e se la spuma delle onde sono rocce affioranti dalle ere trascorse invano fino a questo istante: allora ben oltre i montanti rettilinei, lucidi e nettamente sagomati del mio attimo (vere strade della conoscenza autosufficiente) là in alto sul mare di spuma e di erica la lettera di un gabbiano forse non vede questo fianco a noi rivolto dell’enorme serpe uroboro delle dune, ma ne conosce volando l’inizio e la fine.
Ciò che vedo è l’altrove del luogo – la casa – dove sono stato felice, o forse la sua interna possibilità di essere più pienamente sé, come si crede spesso di se stessi. Ma l’unico modo che la vita conosce di essere pienamente sé, è essere alla luce del sole la propria mancanza. In quale punto dello spazio si fissa, proiettata all’infinito, l’intelaiatura sfocata della finestra? Nel vetro è oltre il vetro e l’oltre è il prima e il dopo. Nonostante questo le case sono case, sagome più oscure o più chiare, un pioppo trema come in un affresco su una superficie d’acqua, o su un vuoto; dal tendaggio bianco sostenuto a un chiodo – la giacca di un fantasma, erompono intrichi d’alberi nudi - vampe traslucide di dendriti. Non oltre, solo nel grigio del cielo, lungo quel sentiero riquadrato dal riflesso di un riflesso, che cosa? Non l’eco dell’illusione di allora, quando invece l’infinita possibilità perduta, la pace e l’ansia domenicali della famiglia dissolta. Senza parole la freschezza della menzogna della vita, solo un brusio, la scena della festa sognata nella scena vera, il bianco. So che in questo altrove loro non sono, lei non è, loro non saranno.
(senza fotografia)
Sono entrati con Eleonora a cercare una maglia per un regalo.
Via IV novembre, un viale lungo e largo, con pochi alberi dall’ordine dei marciapiedi,
sa ancora di vacanza un pomeriggio ai primi di settembre.
Residenziale, negozi, non ancora centro ma con importanza
(e chi non lo sa a Verona?) unisce
piazza Vittorio Veneto, grandi chiome e orribile chiesa,
a piazzale Cadorna (possibile parcheggio scambiatore) e al ponte che scavalca l’Adige
coi suoi cavalli di ferro. Fermo nell’auto parcheggiata
vedo riflesso nella finestra di un piano rialzato il sole
sospeso sul tetto di un palazzo dall’altra parte della strada.
Un cerchio ribattuto, una lastra percorsa da poche striature lucenti,
la parte oscura e netta che ci riguarda, sotto.
Da un balcone su questo lato, più in alto, proprio sopra il supermercato,
rami e foglie di grandi piante in vaso si protendono,
vibrano, danno colore e speranza all’aria.
Come ogni luogo anche qui può essere migliore
e riflettersi in sé e riprodursi nitido e invisibile
in una distanza sognata. Come queste piante felici
così triste è vedere gli addii che si ripetono
senza sapere di essere già stati detti, molto
molto tempo fa. Senza sapere di essere addii.
Così è la fine dell’infanzia
che continua a sperare, già nella sofferenza,
prima dell’infanzia vera (vera?) che non ci sarà.
Tutto il valore, più che in questa grandezza lontana di un bianco quasi notturno, nei particolari distinti e minimi: luci, la sagoma di una casa, i passi di un filare d’alberi sul crinale: non sanno, solo da qui sappiamo che coesistono con la risonanza di marosi di nubi e con gli strati di cielo, abbagli di lagune. Uno spigolo, antenne sfocate, la torre di un palazzo in basso appaiono da dietro, riflessi da un’altra finestra, sono il mondo di quelle nuvole, il cupo della città ricordata. Anche il non ricordarsi può essere preciso, il presente, la presa delle cose. Ma la neve così oscura e bianca, e nel buio infinite parole.
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