città con fiume

città con fiume
olio - Paolo Parma

domenica 25 ottobre 2009

La strada che sale (perifrasi di immagini)

Nel cuneo prospettico dell’autostrada attraverso la selva Ercinia grondante di vento si apre la forma del futuro, parola del passato è il riflesso più chiaro del cielo attorno all’ombra della testa. E come meditare su un’altra scena che inspiegabilmente sbalzata fino a noi, a portata quasi di mano si congiunge alla primaria per semplici linee di commessura? Il tempo morde le linee che attraversano gli istanti.

Bisogna avere affetto per la campitura laccata e sensibile alla luce obliqua che si rileva sul riquadro dell’immagine. Bisogna ricordare, dietro una garza di tenue affanno domenicale, quel cielo, quell’ora, l’edificio non più anonimo, quando tu fosti tu e ogni riflesso o vibrazione o sillaba di nuvola era vita. A destra la strada di forti ombre in controsole conduce al Foro. Al centro, in fondo, una guglia, gente qualsiasi in maglietta che cammina, il candore del sogno. Tutto è attraversato dalla misura.

In quali mondi – è scesa la vivace ombra - la mano da qui invisibile contro il finestrino – il calore ocra del cemento solo immaginato passando rapidi, chi si fermerebbe lì? Eppure anche lì. Altri mondi, dietro, in alto. L’azzurro e il bianco che non avrai mai. Nel tempo. Niente fuori del tempo. Su tutto, la luce della mia assenza.

Sulle immagini
Le immagini più costanti sono recinti ben chiusi, senza più rapporto con questo tempo. Di loro proviene a sera o nella pietra dell’attimo diurno lo spettro, dissolto quando interseca l’altra luce e intercetta i colpi degli altri morti spettri. Andargli incontro è rivedere quella bandiera che sbatteva alla mattina lucente del mare, il sapore dell’aria le luci fitte ogni sera lungo la costa ricordanti altre luci – quando c’era il futuro? Ora c’è questo gesto frainteso e nudo, un panno steso nell’aria verde, solo il pensiero di un pensiero, eppure: ogni strada ti inganna, ogni giorno la credi la stessa e con doppia illusione memoria e presente ti accecano, ma qualcosa anche a me si fa incontro da questo paesaggio e nelle ipotesi dei nomi il vento batte, contro i muri sempre uguali di polvere lucida, da una finestra aperta al tempo di fuori.

Se il deserto del mare, tormentato dal vento che spazza questa lingua di terra, è la brughiera dove non compare traccia umana – se non questo avamposto arretrato alle spalle della sabbia e dei cavalli di frisia – e se la spuma delle onde sono rocce affioranti dalle ere trascorse invano fino a questo istante: allora ben oltre i montanti rettilinei, lucidi e nettamente sagomati del mio attimo (vere strade della conoscenza autosufficiente) là in alto sul mare di spuma e di erica la lettera di un gabbiano forse non vede questo fianco a noi rivolto dell’enorme serpe uroboro delle dune, ma ne conosce volando l’inizio e la fine.

Ciò che vedo è l’altrove del luogo – la casa – dove sono stato felice, o forse la sua interna possibilità di essere più pienamente sé, come si crede spesso di se stessi. Ma l’unico modo che la vita conosce di essere pienamente sé, è essere alla luce del sole la propria mancanza. In quale punto dello spazio si fissa, proiettata all’infinito, l’intelaiatura sfocata della finestra? Nel vetro è oltre il vetro e l’oltre è il prima e il dopo. Nonostante questo le case sono case, sagome più oscure o più chiare, un pioppo trema come in un affresco su una superficie d’acqua, o su un vuoto; dal tendaggio bianco sostenuto a un chiodo – la giacca di un fantasma, erompono intrichi d’alberi nudi - vampe traslucide di dendriti. Non oltre, solo nel grigio del cielo, lungo quel sentiero riquadrato dal riflesso di un riflesso, che cosa? Non l’eco dell’illusione di allora, quando invece l’infinita possibilità perduta, la pace e l’ansia domenicali della famiglia dissolta. Senza parole la freschezza della menzogna della vita, solo un brusio, la scena della festa sognata nella scena vera, il bianco. So che in questo altrove loro non sono, lei non è, loro non saranno.



(senza fotografia)
Sono entrati con Eleonora a cercare una maglia per un regalo.
Via IV novembre, un viale lungo e largo, con pochi alberi dall’ordine dei marciapiedi,
sa ancora di vacanza un pomeriggio ai primi di settembre.
Residenziale, negozi, non ancora centro ma con importanza
(e chi non lo sa a Verona?) unisce
piazza Vittorio Veneto, grandi chiome e orribile chiesa,
a piazzale Cadorna (possibile parcheggio scambiatore) e al ponte che scavalca l’Adige
coi suoi cavalli di ferro. Fermo nell’auto parcheggiata
vedo riflesso nella finestra di un piano rialzato il sole
sospeso sul tetto di un palazzo dall’altra parte della strada.
Un cerchio ribattuto, una lastra percorsa da poche striature lucenti,
la parte oscura e netta che ci riguarda, sotto.
Da un balcone su questo lato, più in alto, proprio sopra il supermercato,
rami e foglie di grandi piante in vaso si protendono,
vibrano, danno colore e speranza all’aria.
Come ogni luogo anche qui può essere migliore
e riflettersi in sé e riprodursi nitido e invisibile
in una distanza sognata. Come queste piante felici
così triste è vedere gli addii che si ripetono
senza sapere di essere già stati detti, molto
molto tempo fa. Senza sapere di essere addii.
Così è la fine dell’infanzia
che continua a sperare, già nella sofferenza,
prima dell’infanzia vera (vera?) che non ci sarà.






Tutto il valore, più che in questa grandezza lontana di un bianco quasi notturno, nei particolari distinti e minimi: luci, la sagoma di una casa, i passi di un filare d’alberi sul crinale: non sanno, solo da qui sappiamo che coesistono con la risonanza di marosi di nubi e con gli strati di cielo, abbagli di lagune. Uno spigolo, antenne sfocate, la torre di un palazzo in basso appaiono da dietro, riflessi da un’altra finestra, sono il mondo di quelle nuvole, il cupo della città ricordata. Anche il non ricordarsi può essere preciso, il presente, la presa delle cose. Ma la neve così oscura e bianca, e nel buio infinite parole.

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