A qualche anno di distanza dall'uscita del libro, pubblico qui come omaggio ad Alda Merini la Nota finale, frutto di un lavoro di cura del testo condiviso con colleghi e amici (Marco Campedelli, grande amico della poetessa e ideatore del libro; Massimo Natale, giovane ma già brillante studioso; Roberto Fattore, autore della bella Prefazione al testo) e guidato da rigore e passione.
- La cura dei testi qui raccolti nell'ordine cronologico in cui sono stati dettati, è stata condotta in gruppo, da un gruppo di quattro amici e lettori, come dialogo reattivo alle potenzialità dei testi, come scoperta della pluralità contenuta nel flusso così unitario e personale della voce di Alda Merini, come comprensione appunto del nascere della poesia, non dal nulla (forse dal caos, come ha scritto di sé) ma dalla trama oscura di una vita. La quasi totalità delle poesie è stata dettata al telefono da Alda Merini al suo amico e interlocutore privilegiato don Marco Campedelli, della parrocchia di San Nicolò in Verona.
Potrei dire che la nostra condivisione è stata una dote della solitudine della sua parola, una eco del suo esibito mistero; a loro volta i nostri quattro diversi sguardi sul testo ne hanno fatto riecheggiare potenzialità, gesti in ombra, altre voci.
Colpisce nel libro la sincerità di una voce, che non costruisce versi per eufonie o ricerca di letterarietà: quelli che potrebbero, per prosasticità e normalità del dettato, essere detti "non versi", si giustificano nel complesso, nel peso o caratura del discorso fatto alla persona che ascolta. La concretezza del parlare (del "dittare") della Merini, ascoltata improvvisare poesie al telefono, è capace di ogni varietà, dentro e al di fuori della poesia, contro i luoghi comuni pubblici su di lei (la pazza, la santa, l'invasata profetica). Queste parole sospese nell’arco di una conversazione, affermazioni o domande o recriminazioni sono realtà ancora più piena che le parole nate nella scrittura silenziosa sulla carta: abitano più livelli di realtà, o meglio rispetto alla poesia scritta compiono il percorso inverso, dalla voce alla pagina. Sono parole e discorsi, come può accadere in un dialogo carico di sensi e sentimenti contrastanti, insieme delicati e terribili; parole dolorosamente senza dubbi (come l'autrice afferma nel testo qui posto a chiudere il libro, dove la voce diviene quella di Amleto) e quindi totalmente divaricate ed esposte alla tenaglia di amore e odio (sono tale tenaglia), aperte alla profezia e all'angoscia (già secondo Maria Corti nell'Introduzione al Fiore di poesia).
Si diceva di una pluralità presente nei testi. Crediamo sia legata alla natura della sua voce, corporea (perché orale, perché relativa a situazioni concrete, del vissuto quotidiano e biologico-psicologico) e intimamente dialogica; il verso, nascente all'improvviso all'interno della conversazione, come rottura e riflessione/elaborazione lirica di essa su un piano diverso, ha misure che coincidono col respiro e le sue pause, fisiche e meditative. Per questi motivi non è forse in realtà corretto parlare di improvvisazione: Alda Merini non è attrice che reciti né poeta in gara o in esibizione davanti ad un pubblico, né una professionista della narrazione aedica, né una dilettante da esecuzione sommaria, se ci si perdona la battuta. La sua vocazione lirica e al monologo o recitativo drammatico appare in lei come un dato di natura progressivamente chiaritosi o evolutosi, legato alla percezione della vita come teatro di un accadere tragico ("siamo rimasti noi / sul carro di mangiafuoco. / La carne frustata dagli anni / lievita in forma di pane", in un suo Pulcinoelefante del 2004), eternamente rivissuto e agito in un teatro interiore e da lì rigettato, sotto il controllo di una lucida visione mentale, nella vita. Le radici di tale vocazione stanno forse, da un punto di vista religioso, in un dialogo-identificazione col Cristo vittima (come doveva suonare il titolo originario del Poema della croce, 2004) di un violento "carnevale della crocifissione", culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano; da un punto di vista laico e psicologico, in quella oscura "informità" iniziale e arcaica di cui scriveva Pasolini nel '54, una mancanza di senso di identità che riflette su di sé e si definisce generando al proprio interno "una mostruosa voce maschile" e un'attesa-ricerca dell'Altro (corporeo e psichico) nel mondo circostante.
Ma per restare ai fatti, da tale modalità orale, dialogica, teatrale sono provenuti anche i problemi della trascrizione, e poi della cura e presentazione del testo trascritto in vista di un'edizione, problemi che hanno richiesto una riflessione su alcuni aspetti formali. In particolare, alcuni giri di frase diversamente ricostruibili e interpretabili: a volte accade - questa una nostra ipotesi - che nella creazione orale, pausata secondo respiro e trascritta in versi che rispettano tali lunghezze, una frase (quasi sempre la frase-verso, autonoma nella sintassi e nel senso) nata in coda a una certa sequenza di discorso assuma nel breve tempo della riflessione silenziosa un nuovo ruolo incipitario per un'altra sequenza. Non per calcolo letterario: nemmeno quella che di fatto appare come inarcatura tra un verso e l'altro, abbastanza rara, spezza duramente il sintagma, ma si può prestare a tale ruolo di ripresa del discorso o essere completamento, precisazione di un concetto o immagine sospesa.
Si è deciso di non introdurre nei testi alcun segno di punteggiatura, che sarebbe una ulteriore, impropria interpretazione da parte dei curatori e che oscurerebbe la loro genesi orale, nel prodursi della quale le pause e il loro senso sono naturalmente comprensibili. Allo stesso titolo, tranne quella che apre il primo verso, non vi sono maiuscole per segnalare l'inizio di un periodo o di una sequenza di testo. Solo di fronte ad uno stacco netto, semantico e di tonalità oltre che sintattico, nel flusso del discorso e che se non segnalato potrebbe causare difficoltà rilevanti di lettura, abbiamo usato una semplice spaziatura, come una pausa più consistente. Le difficoltà nascenti invece da un'articolazione intrinseca ad una sequenza o ad uno snodo tra sequenze (vedi sopra), sono rimaste tali e quali, ma sono nella natura della poesia e non chiedono di essere risolte ma percepite e capite, rivissute per quanto possibile. Sono stati espunti o accantonati, dall'insieme dei testi qui raccolti, quelli di natura troppo personale o quelli estranei a quella che sempre più si chiariva come la tematica dominante del libro, l'amore e quanto ad esso connesso: ad esempio un gruppo di testi, anche assai belli, di ispirazione direttamente religiosa. Ma per prendere, per arrogarci il diritto di prendere queste decisioni siamo riandati al percorso dell'intera produzione poetica di Alda Merini, allo scopo di capire, anche sulla base di quanto detto e fatto da altri, in quale fase ci trovassimo e in quale direzione si stesse cercando di accompagnare i testi.
Quanto abbiamo rilevato del "dettato" meriniano e della sua storia non ci pare frutto di calcolo o di ricerca e sperimentazione formale, ma piuttosto di una ricorsività e di variazioni spontanee del ritmo, manifestazione di distinte tonalità psicologiche connesse a situazioni della vita, ruoli e personaggi precisi. Non un flusso di discorso alla ricerca di un'ossatura ritmica, o peggio di una veste metrica e retorica. Anzi una poesia nuda, non separata dall'aria (o reclusione) della vita, ritmo in sé, misura intima come quel limite-confine di sé sempre ricercato e necessario per far esistere il sé nel mondo. Ma questo limite pare disegnarsi in bilico sul crinale di due paesaggi poetici diversi.
Ci troviamo, pare, ad un bivio, tra liricità-oracolarità o spegnimento della poesia nel flusso del discorso quotidiano, bivio che forse la pluralità (la tragica contradditorietà) meriniana percorrerà senza scegliere una via sola, perché "La casa della poesia / non avrà mai porte" e nemmeno vie sicure. E questa ambivalenza pare rimandare ad un fondo sotterraneo e tragico, estremamente concreto e per nulla in sé "mistico", dove confliggono spinta alla rinascita e senso della dissoluzione, vero spessore umano di un "orfismo" (così "antinovecentesco") spesso malinteso.
Ancora una volta si tratta di un rischio totale, di una poesia che facilmente non verrà ripagata dalla vita, di una scommessa ed esposizione totale della poesia alla vita. A noi, imperfettamente, rimane il dono e la responsabilità di aver seguito una piccola parte di questo cammino. -
Luca Bragaja
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