La selva che si scuote al vento triste
e potente dell’alba a diversa
compagine stretta
di alberi in immagini
chiusa sul pendio chiude le viste
trapelanti a squarci a brandelli
di altre case ferme sul crinale.
Solo questo breve bosco insiste
tra questa casa le case una strada
silenziosa nel paese
tra gli alberi bruciano le voci invisibili
di foglie marcite
e fra poco sepolte
nella scena recinta infinita.
giovedì 26 novembre 2009
Un paesaggio virgiliano in Frontiera di Vittorio Sereni
Ecco le voci cadono e gli amici
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.
Vittorio Sereni
Alla fine della IX ecloga delle Bucoliche, quando dopo la sentenza “Omnia fert aetas, animum quoque” del v. 51, resa da Canali (BUR 1978, certo una data che impedisce che la traduzione possa aver pesato per Sereni) con “Il tempo rapisce tutto, anche la memoria” si apre uno scenario di silenzio, “Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes, / adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae” (vv. 57-58). Riconosciamo alcune sonorità e strutture dei primi versi di Ecco le voci cadono di Vittorio Sereni, in chiusa di Frontiera, 1941: “Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un grido è meno /che un murmure a chiamarli.” “Et nunc” allittera (molto più favorevole, in questo caso, una scansione scolastica del verso che ponga un accento intensivo sulla prima sillaba) in incipit con “Ecco”, “silet” e “ceciderunt” contribuiscono insieme a “le voci cadono”, “aequor”, che non è mare né lago in Virgilio, può ricordare il lago del testo di Sereni, e da “murmuris” si arriva, anche se con possibili mediazioni pascoliane o montaliane, al latinismo di “murmure”. Cioè dal dialogo malinconico e stupito di Lìcida e Meri sui campi espropriati, sull’assenza di Menalca, sul trascorrere del tempo, alle voci perdute di un convito di amici, “una delle pallide immagini che della morte ci facciamo” (Discorso di Capo d’Anno, “Campo di Marte”, gennaio 1939). Lo svanito mormorio del vento è tutto portato all’umano e alluso nel sommesso “murmure”, termine di confronto del debole grido che chiama gli amici scomparsi. Il “sorriso limpido e funesto” dei versi successivi è forse il “sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine” dell’amica poetessa Piera Badoni, ispiratrice di molti testi del libro (lettera a Giancarlo Vigorelli del 6 marzo 1941). Una scena che prepara quella (pure, per alcuni aspetti, “virgiliana”), di Niccolò, nell’ultimo libro di Sereni.
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.
Vittorio Sereni
Alla fine della IX ecloga delle Bucoliche, quando dopo la sentenza “Omnia fert aetas, animum quoque” del v. 51, resa da Canali (BUR 1978, certo una data che impedisce che la traduzione possa aver pesato per Sereni) con “Il tempo rapisce tutto, anche la memoria” si apre uno scenario di silenzio, “Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes, / adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae” (vv. 57-58). Riconosciamo alcune sonorità e strutture dei primi versi di Ecco le voci cadono di Vittorio Sereni, in chiusa di Frontiera, 1941: “Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un grido è meno /che un murmure a chiamarli.” “Et nunc” allittera (molto più favorevole, in questo caso, una scansione scolastica del verso che ponga un accento intensivo sulla prima sillaba) in incipit con “Ecco”, “silet” e “ceciderunt” contribuiscono insieme a “le voci cadono”, “aequor”, che non è mare né lago in Virgilio, può ricordare il lago del testo di Sereni, e da “murmuris” si arriva, anche se con possibili mediazioni pascoliane o montaliane, al latinismo di “murmure”. Cioè dal dialogo malinconico e stupito di Lìcida e Meri sui campi espropriati, sull’assenza di Menalca, sul trascorrere del tempo, alle voci perdute di un convito di amici, “una delle pallide immagini che della morte ci facciamo” (Discorso di Capo d’Anno, “Campo di Marte”, gennaio 1939). Lo svanito mormorio del vento è tutto portato all’umano e alluso nel sommesso “murmure”, termine di confronto del debole grido che chiama gli amici scomparsi. Il “sorriso limpido e funesto” dei versi successivi è forse il “sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine” dell’amica poetessa Piera Badoni, ispiratrice di molti testi del libro (lettera a Giancarlo Vigorelli del 6 marzo 1941). Una scena che prepara quella (pure, per alcuni aspetti, “virgiliana”), di Niccolò, nell’ultimo libro di Sereni.
sabato 7 novembre 2009
Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
Guido Cavalcanti
a Guido Cavalcanti
siamo lo schermo, il corpo, questa luce
che dolorosamente taglia la scrittura
siamo il triste alfabeto che scolora.
Vattene dico alla parola, cosa dubbiosa lasciami
cancella subito me stessa
fai che un'altra ti prenda e ti raccolga
che mi sgombri dal tempo
e faccia nulla della mia persona
- la privi come vuole di lamento -
le scavi un vuoto
aperto solo al vento.
Antonella Anedda
dai Cori apparsi su “Altroverso” n° 2, giugno 2005; poi con alcune varianti e la titolazione Coro e la dedica a R. in Dal balcone del corpo, Mondadori 2007.
Nel libro, al di là di qualche intervento di superficie sul ritmo (il lungo verso 4 diviso in due e gli ultimi due versi brevi assemblati) o sulla punteggiatura (comparso un punto al v.2, scomparsa la virgola del verso lungo poi diviso, scomparsi i trattini), cadono i termini "dolorosamente" e "triste" rendendo meno evidente la natura di rifacimento cavalcantiano di questa splendida poesia, cosa visibile ora solo in "taglia" (eco delle cesoiuzze e del coltellin), "scrittura", "parola" personificata (così come noi siamo alfabeto) e soprattutto "cosa dubbiosa". Forse troppo evidente la matrice-Cavalcanti, ma togliere i due termini, per quanto non del tutto necessari sul piano semantico (il taglio è certo doloroso, l'alfabeto che scolora è certo triste), muta radicalmente il ritmo dei versi (tredecasillabo scomponibile in 7 + 6, dove si snodava e rilevava "dolorosamente" > classico settenario; endecasillabo con due sinalefi e il pathos ridondante di "triste" > decasillabo, per fortuna non manzoniano), e il ritmo non è solo un fatto formale. Mi pare che, rinunciando ad una tonalità patetica accentuata ed esibita, si tenda ad una maggior secchezza di enunciato, che tiene tutto implicito: in questo senso anche il lavoro sulla punteggiatura assume rilevanza. Al di là di queste considerazioni il giudizio sarebbe del tutto soggettivo (o meglio avrebbe ragioni più profonde o sottili che qui non serve approfondire), ed è in entrambi i casi una bellissima poesia. Il libro andrebbe letto e capito meglio di quanto finora sia stato fatto, ad esempio chiedendosi il perché dei "Cori" che si intercalano agli altri testi.
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
Guido Cavalcanti
a Guido Cavalcanti
siamo lo schermo, il corpo, questa luce
che dolorosamente taglia la scrittura
siamo il triste alfabeto che scolora.
Vattene dico alla parola, cosa dubbiosa lasciami
cancella subito me stessa
fai che un'altra ti prenda e ti raccolga
che mi sgombri dal tempo
e faccia nulla della mia persona
- la privi come vuole di lamento -
le scavi un vuoto
aperto solo al vento.
Antonella Anedda
dai Cori apparsi su “Altroverso” n° 2, giugno 2005; poi con alcune varianti e la titolazione Coro e la dedica a R. in Dal balcone del corpo, Mondadori 2007.
Nel libro, al di là di qualche intervento di superficie sul ritmo (il lungo verso 4 diviso in due e gli ultimi due versi brevi assemblati) o sulla punteggiatura (comparso un punto al v.2, scomparsa la virgola del verso lungo poi diviso, scomparsi i trattini), cadono i termini "dolorosamente" e "triste" rendendo meno evidente la natura di rifacimento cavalcantiano di questa splendida poesia, cosa visibile ora solo in "taglia" (eco delle cesoiuzze e del coltellin), "scrittura", "parola" personificata (così come noi siamo alfabeto) e soprattutto "cosa dubbiosa". Forse troppo evidente la matrice-Cavalcanti, ma togliere i due termini, per quanto non del tutto necessari sul piano semantico (il taglio è certo doloroso, l'alfabeto che scolora è certo triste), muta radicalmente il ritmo dei versi (tredecasillabo scomponibile in 7 + 6, dove si snodava e rilevava "dolorosamente" > classico settenario; endecasillabo con due sinalefi e il pathos ridondante di "triste" > decasillabo, per fortuna non manzoniano), e il ritmo non è solo un fatto formale. Mi pare che, rinunciando ad una tonalità patetica accentuata ed esibita, si tenda ad una maggior secchezza di enunciato, che tiene tutto implicito: in questo senso anche il lavoro sulla punteggiatura assume rilevanza. Al di là di queste considerazioni il giudizio sarebbe del tutto soggettivo (o meglio avrebbe ragioni più profonde o sottili che qui non serve approfondire), ed è in entrambi i casi una bellissima poesia. Il libro andrebbe letto e capito meglio di quanto finora sia stato fatto, ad esempio chiedendosi il perché dei "Cori" che si intercalano agli altri testi.
giovedì 5 novembre 2009
Colori e forme frane
fanno zanne
esprimono
o covano
espiano
*
Colori e forme frane
hanno zanne
esprimono
o covano
espiano
disseccati
sotto
sputi
di Arpie
fanno zanne
esprimono
o covano
espiano
*
Colori e forme frane
hanno zanne
esprimono
o covano
espiano
disseccati
sotto
sputi
di Arpie
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Andrea Zanzotto,
da "Conglomerati",
Mondadori 2009
martedì 3 novembre 2009
Nota a "Nel cerchio di un pensiero" di Alda Merini, Crocetti editore, 2005
A qualche anno di distanza dall'uscita del libro, pubblico qui come omaggio ad Alda Merini la Nota finale, frutto di un lavoro di cura del testo condiviso con colleghi e amici (Marco Campedelli, grande amico della poetessa e ideatore del libro; Massimo Natale, giovane ma già brillante studioso; Roberto Fattore, autore della bella Prefazione al testo) e guidato da rigore e passione.
- La cura dei testi qui raccolti nell'ordine cronologico in cui sono stati dettati, è stata condotta in gruppo, da un gruppo di quattro amici e lettori, come dialogo reattivo alle potenzialità dei testi, come scoperta della pluralità contenuta nel flusso così unitario e personale della voce di Alda Merini, come comprensione appunto del nascere della poesia, non dal nulla (forse dal caos, come ha scritto di sé) ma dalla trama oscura di una vita. La quasi totalità delle poesie è stata dettata al telefono da Alda Merini al suo amico e interlocutore privilegiato don Marco Campedelli, della parrocchia di San Nicolò in Verona.
Potrei dire che la nostra condivisione è stata una dote della solitudine della sua parola, una eco del suo esibito mistero; a loro volta i nostri quattro diversi sguardi sul testo ne hanno fatto riecheggiare potenzialità, gesti in ombra, altre voci.
Colpisce nel libro la sincerità di una voce, che non costruisce versi per eufonie o ricerca di letterarietà: quelli che potrebbero, per prosasticità e normalità del dettato, essere detti "non versi", si giustificano nel complesso, nel peso o caratura del discorso fatto alla persona che ascolta. La concretezza del parlare (del "dittare") della Merini, ascoltata improvvisare poesie al telefono, è capace di ogni varietà, dentro e al di fuori della poesia, contro i luoghi comuni pubblici su di lei (la pazza, la santa, l'invasata profetica). Queste parole sospese nell’arco di una conversazione, affermazioni o domande o recriminazioni sono realtà ancora più piena che le parole nate nella scrittura silenziosa sulla carta: abitano più livelli di realtà, o meglio rispetto alla poesia scritta compiono il percorso inverso, dalla voce alla pagina. Sono parole e discorsi, come può accadere in un dialogo carico di sensi e sentimenti contrastanti, insieme delicati e terribili; parole dolorosamente senza dubbi (come l'autrice afferma nel testo qui posto a chiudere il libro, dove la voce diviene quella di Amleto) e quindi totalmente divaricate ed esposte alla tenaglia di amore e odio (sono tale tenaglia), aperte alla profezia e all'angoscia (già secondo Maria Corti nell'Introduzione al Fiore di poesia).
Si diceva di una pluralità presente nei testi. Crediamo sia legata alla natura della sua voce, corporea (perché orale, perché relativa a situazioni concrete, del vissuto quotidiano e biologico-psicologico) e intimamente dialogica; il verso, nascente all'improvviso all'interno della conversazione, come rottura e riflessione/elaborazione lirica di essa su un piano diverso, ha misure che coincidono col respiro e le sue pause, fisiche e meditative. Per questi motivi non è forse in realtà corretto parlare di improvvisazione: Alda Merini non è attrice che reciti né poeta in gara o in esibizione davanti ad un pubblico, né una professionista della narrazione aedica, né una dilettante da esecuzione sommaria, se ci si perdona la battuta. La sua vocazione lirica e al monologo o recitativo drammatico appare in lei come un dato di natura progressivamente chiaritosi o evolutosi, legato alla percezione della vita come teatro di un accadere tragico ("siamo rimasti noi / sul carro di mangiafuoco. / La carne frustata dagli anni / lievita in forma di pane", in un suo Pulcinoelefante del 2004), eternamente rivissuto e agito in un teatro interiore e da lì rigettato, sotto il controllo di una lucida visione mentale, nella vita. Le radici di tale vocazione stanno forse, da un punto di vista religioso, in un dialogo-identificazione col Cristo vittima (come doveva suonare il titolo originario del Poema della croce, 2004) di un violento "carnevale della crocifissione", culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano; da un punto di vista laico e psicologico, in quella oscura "informità" iniziale e arcaica di cui scriveva Pasolini nel '54, una mancanza di senso di identità che riflette su di sé e si definisce generando al proprio interno "una mostruosa voce maschile" e un'attesa-ricerca dell'Altro (corporeo e psichico) nel mondo circostante.
Ma per restare ai fatti, da tale modalità orale, dialogica, teatrale sono provenuti anche i problemi della trascrizione, e poi della cura e presentazione del testo trascritto in vista di un'edizione, problemi che hanno richiesto una riflessione su alcuni aspetti formali. In particolare, alcuni giri di frase diversamente ricostruibili e interpretabili: a volte accade - questa una nostra ipotesi - che nella creazione orale, pausata secondo respiro e trascritta in versi che rispettano tali lunghezze, una frase (quasi sempre la frase-verso, autonoma nella sintassi e nel senso) nata in coda a una certa sequenza di discorso assuma nel breve tempo della riflessione silenziosa un nuovo ruolo incipitario per un'altra sequenza. Non per calcolo letterario: nemmeno quella che di fatto appare come inarcatura tra un verso e l'altro, abbastanza rara, spezza duramente il sintagma, ma si può prestare a tale ruolo di ripresa del discorso o essere completamento, precisazione di un concetto o immagine sospesa.
Si è deciso di non introdurre nei testi alcun segno di punteggiatura, che sarebbe una ulteriore, impropria interpretazione da parte dei curatori e che oscurerebbe la loro genesi orale, nel prodursi della quale le pause e il loro senso sono naturalmente comprensibili. Allo stesso titolo, tranne quella che apre il primo verso, non vi sono maiuscole per segnalare l'inizio di un periodo o di una sequenza di testo. Solo di fronte ad uno stacco netto, semantico e di tonalità oltre che sintattico, nel flusso del discorso e che se non segnalato potrebbe causare difficoltà rilevanti di lettura, abbiamo usato una semplice spaziatura, come una pausa più consistente. Le difficoltà nascenti invece da un'articolazione intrinseca ad una sequenza o ad uno snodo tra sequenze (vedi sopra), sono rimaste tali e quali, ma sono nella natura della poesia e non chiedono di essere risolte ma percepite e capite, rivissute per quanto possibile. Sono stati espunti o accantonati, dall'insieme dei testi qui raccolti, quelli di natura troppo personale o quelli estranei a quella che sempre più si chiariva come la tematica dominante del libro, l'amore e quanto ad esso connesso: ad esempio un gruppo di testi, anche assai belli, di ispirazione direttamente religiosa. Ma per prendere, per arrogarci il diritto di prendere queste decisioni siamo riandati al percorso dell'intera produzione poetica di Alda Merini, allo scopo di capire, anche sulla base di quanto detto e fatto da altri, in quale fase ci trovassimo e in quale direzione si stesse cercando di accompagnare i testi.
Quanto abbiamo rilevato del "dettato" meriniano e della sua storia non ci pare frutto di calcolo o di ricerca e sperimentazione formale, ma piuttosto di una ricorsività e di variazioni spontanee del ritmo, manifestazione di distinte tonalità psicologiche connesse a situazioni della vita, ruoli e personaggi precisi. Non un flusso di discorso alla ricerca di un'ossatura ritmica, o peggio di una veste metrica e retorica. Anzi una poesia nuda, non separata dall'aria (o reclusione) della vita, ritmo in sé, misura intima come quel limite-confine di sé sempre ricercato e necessario per far esistere il sé nel mondo. Ma questo limite pare disegnarsi in bilico sul crinale di due paesaggi poetici diversi.
Ci troviamo, pare, ad un bivio, tra liricità-oracolarità o spegnimento della poesia nel flusso del discorso quotidiano, bivio che forse la pluralità (la tragica contradditorietà) meriniana percorrerà senza scegliere una via sola, perché "La casa della poesia / non avrà mai porte" e nemmeno vie sicure. E questa ambivalenza pare rimandare ad un fondo sotterraneo e tragico, estremamente concreto e per nulla in sé "mistico", dove confliggono spinta alla rinascita e senso della dissoluzione, vero spessore umano di un "orfismo" (così "antinovecentesco") spesso malinteso.
Ancora una volta si tratta di un rischio totale, di una poesia che facilmente non verrà ripagata dalla vita, di una scommessa ed esposizione totale della poesia alla vita. A noi, imperfettamente, rimane il dono e la responsabilità di aver seguito una piccola parte di questo cammino. -
Luca Bragaja
- La cura dei testi qui raccolti nell'ordine cronologico in cui sono stati dettati, è stata condotta in gruppo, da un gruppo di quattro amici e lettori, come dialogo reattivo alle potenzialità dei testi, come scoperta della pluralità contenuta nel flusso così unitario e personale della voce di Alda Merini, come comprensione appunto del nascere della poesia, non dal nulla (forse dal caos, come ha scritto di sé) ma dalla trama oscura di una vita. La quasi totalità delle poesie è stata dettata al telefono da Alda Merini al suo amico e interlocutore privilegiato don Marco Campedelli, della parrocchia di San Nicolò in Verona.
Potrei dire che la nostra condivisione è stata una dote della solitudine della sua parola, una eco del suo esibito mistero; a loro volta i nostri quattro diversi sguardi sul testo ne hanno fatto riecheggiare potenzialità, gesti in ombra, altre voci.
Colpisce nel libro la sincerità di una voce, che non costruisce versi per eufonie o ricerca di letterarietà: quelli che potrebbero, per prosasticità e normalità del dettato, essere detti "non versi", si giustificano nel complesso, nel peso o caratura del discorso fatto alla persona che ascolta. La concretezza del parlare (del "dittare") della Merini, ascoltata improvvisare poesie al telefono, è capace di ogni varietà, dentro e al di fuori della poesia, contro i luoghi comuni pubblici su di lei (la pazza, la santa, l'invasata profetica). Queste parole sospese nell’arco di una conversazione, affermazioni o domande o recriminazioni sono realtà ancora più piena che le parole nate nella scrittura silenziosa sulla carta: abitano più livelli di realtà, o meglio rispetto alla poesia scritta compiono il percorso inverso, dalla voce alla pagina. Sono parole e discorsi, come può accadere in un dialogo carico di sensi e sentimenti contrastanti, insieme delicati e terribili; parole dolorosamente senza dubbi (come l'autrice afferma nel testo qui posto a chiudere il libro, dove la voce diviene quella di Amleto) e quindi totalmente divaricate ed esposte alla tenaglia di amore e odio (sono tale tenaglia), aperte alla profezia e all'angoscia (già secondo Maria Corti nell'Introduzione al Fiore di poesia).
Si diceva di una pluralità presente nei testi. Crediamo sia legata alla natura della sua voce, corporea (perché orale, perché relativa a situazioni concrete, del vissuto quotidiano e biologico-psicologico) e intimamente dialogica; il verso, nascente all'improvviso all'interno della conversazione, come rottura e riflessione/elaborazione lirica di essa su un piano diverso, ha misure che coincidono col respiro e le sue pause, fisiche e meditative. Per questi motivi non è forse in realtà corretto parlare di improvvisazione: Alda Merini non è attrice che reciti né poeta in gara o in esibizione davanti ad un pubblico, né una professionista della narrazione aedica, né una dilettante da esecuzione sommaria, se ci si perdona la battuta. La sua vocazione lirica e al monologo o recitativo drammatico appare in lei come un dato di natura progressivamente chiaritosi o evolutosi, legato alla percezione della vita come teatro di un accadere tragico ("siamo rimasti noi / sul carro di mangiafuoco. / La carne frustata dagli anni / lievita in forma di pane", in un suo Pulcinoelefante del 2004), eternamente rivissuto e agito in un teatro interiore e da lì rigettato, sotto il controllo di una lucida visione mentale, nella vita. Le radici di tale vocazione stanno forse, da un punto di vista religioso, in un dialogo-identificazione col Cristo vittima (come doveva suonare il titolo originario del Poema della croce, 2004) di un violento "carnevale della crocifissione", culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano; da un punto di vista laico e psicologico, in quella oscura "informità" iniziale e arcaica di cui scriveva Pasolini nel '54, una mancanza di senso di identità che riflette su di sé e si definisce generando al proprio interno "una mostruosa voce maschile" e un'attesa-ricerca dell'Altro (corporeo e psichico) nel mondo circostante.
Ma per restare ai fatti, da tale modalità orale, dialogica, teatrale sono provenuti anche i problemi della trascrizione, e poi della cura e presentazione del testo trascritto in vista di un'edizione, problemi che hanno richiesto una riflessione su alcuni aspetti formali. In particolare, alcuni giri di frase diversamente ricostruibili e interpretabili: a volte accade - questa una nostra ipotesi - che nella creazione orale, pausata secondo respiro e trascritta in versi che rispettano tali lunghezze, una frase (quasi sempre la frase-verso, autonoma nella sintassi e nel senso) nata in coda a una certa sequenza di discorso assuma nel breve tempo della riflessione silenziosa un nuovo ruolo incipitario per un'altra sequenza. Non per calcolo letterario: nemmeno quella che di fatto appare come inarcatura tra un verso e l'altro, abbastanza rara, spezza duramente il sintagma, ma si può prestare a tale ruolo di ripresa del discorso o essere completamento, precisazione di un concetto o immagine sospesa.
Si è deciso di non introdurre nei testi alcun segno di punteggiatura, che sarebbe una ulteriore, impropria interpretazione da parte dei curatori e che oscurerebbe la loro genesi orale, nel prodursi della quale le pause e il loro senso sono naturalmente comprensibili. Allo stesso titolo, tranne quella che apre il primo verso, non vi sono maiuscole per segnalare l'inizio di un periodo o di una sequenza di testo. Solo di fronte ad uno stacco netto, semantico e di tonalità oltre che sintattico, nel flusso del discorso e che se non segnalato potrebbe causare difficoltà rilevanti di lettura, abbiamo usato una semplice spaziatura, come una pausa più consistente. Le difficoltà nascenti invece da un'articolazione intrinseca ad una sequenza o ad uno snodo tra sequenze (vedi sopra), sono rimaste tali e quali, ma sono nella natura della poesia e non chiedono di essere risolte ma percepite e capite, rivissute per quanto possibile. Sono stati espunti o accantonati, dall'insieme dei testi qui raccolti, quelli di natura troppo personale o quelli estranei a quella che sempre più si chiariva come la tematica dominante del libro, l'amore e quanto ad esso connesso: ad esempio un gruppo di testi, anche assai belli, di ispirazione direttamente religiosa. Ma per prendere, per arrogarci il diritto di prendere queste decisioni siamo riandati al percorso dell'intera produzione poetica di Alda Merini, allo scopo di capire, anche sulla base di quanto detto e fatto da altri, in quale fase ci trovassimo e in quale direzione si stesse cercando di accompagnare i testi.
Quanto abbiamo rilevato del "dettato" meriniano e della sua storia non ci pare frutto di calcolo o di ricerca e sperimentazione formale, ma piuttosto di una ricorsività e di variazioni spontanee del ritmo, manifestazione di distinte tonalità psicologiche connesse a situazioni della vita, ruoli e personaggi precisi. Non un flusso di discorso alla ricerca di un'ossatura ritmica, o peggio di una veste metrica e retorica. Anzi una poesia nuda, non separata dall'aria (o reclusione) della vita, ritmo in sé, misura intima come quel limite-confine di sé sempre ricercato e necessario per far esistere il sé nel mondo. Ma questo limite pare disegnarsi in bilico sul crinale di due paesaggi poetici diversi.
Ci troviamo, pare, ad un bivio, tra liricità-oracolarità o spegnimento della poesia nel flusso del discorso quotidiano, bivio che forse la pluralità (la tragica contradditorietà) meriniana percorrerà senza scegliere una via sola, perché "La casa della poesia / non avrà mai porte" e nemmeno vie sicure. E questa ambivalenza pare rimandare ad un fondo sotterraneo e tragico, estremamente concreto e per nulla in sé "mistico", dove confliggono spinta alla rinascita e senso della dissoluzione, vero spessore umano di un "orfismo" (così "antinovecentesco") spesso malinteso.
Ancora una volta si tratta di un rischio totale, di una poesia che facilmente non verrà ripagata dalla vita, di una scommessa ed esposizione totale della poesia alla vita. A noi, imperfettamente, rimane il dono e la responsabilità di aver seguito una piccola parte di questo cammino. -
Luca Bragaja
domenica 1 novembre 2009
In memoriam A.M. - Il primo testo risale a qualche anno fa, quando stavamo lavorando al libro della Merini; il secondo è il vero testo per lei.
Nel fuoco stinto di un'ora
c'era il muschio che chiamano létego e gli stracci
resti di frutta e altro nel Naviglio asciutto
niente di così diverso dalla sua casa
buca segreta nel fragore scavato
fino là dove i palazzi di Milano
sono piccoli e dorati nell'azzurro.
(2004, dopo una visita ad A.M.)
In memoriam A.M.
Quando è morta Alda Merini
il natale dell’immaginazione ha liberato
sottili sfere di canto
e una voce sola ha ripetuto
non è più, non è più
come l’ultimo migratore ancora
aggomitolato nell’incanto dell’autunno
prima di partire
per una primavera
2 novembre 2009
c'era il muschio che chiamano létego e gli stracci
resti di frutta e altro nel Naviglio asciutto
niente di così diverso dalla sua casa
buca segreta nel fragore scavato
fino là dove i palazzi di Milano
sono piccoli e dorati nell'azzurro.
(2004, dopo una visita ad A.M.)
In memoriam A.M.
Quando è morta Alda Merini
il natale dell’immaginazione ha liberato
sottili sfere di canto
e una voce sola ha ripetuto
non è più, non è più
come l’ultimo migratore ancora
aggomitolato nell’incanto dell’autunno
prima di partire
per una primavera
2 novembre 2009
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