città con fiume

città con fiume
olio - Paolo Parma

martedì 11 dicembre 2012


Consideratio-orior

 

 

 

 

 

 

 

Siderale

 

 

                                                                  palpito

 

 

 

 

         del cristallo di un bicchiere

 

             arguto

        

 

 

                           

                                               l’inverno

                   in un fiume

già

 

 

 

                   caduto

                   così

 

                  

 

 

 

 

                                                                  foce

lontana la                                         

8 dicembre 2012

 

Si stacca precisa nel ghiaccio

dell’aria grigia di via

IV novembre la mole

eterea e petrosa del Baldo

già bianca di neve la cresta

per strati di nuvole e cielo

ieri azzurro marino. Decorano

il corso le luci sugli alberi

conici e uguali in due file

che lo sguardo percorre ed illustrano

conducendo per l’alta foresta

di case agli antichi giardini

e alla fontana o allo slargo

dove poi scavalca il ponte

coi suoi cavalli alati.

Qui ogni cosa per me è già parola

già pronunciata e non detta

in questa domenica eterna

in cui sempre di te ricordandomi

mi presento a me stesso e a me stesso

presentato mi assento

(in coda al supermercato al bar

per un bicchiere col cellulare in mano

rigido sulla moto da mio padre

tra i quadri) e percorro la via

vedendo ciò che si vede

la tragedia verticale del mondo

come una fiaba e le luci quiete.

 

 

(di te: riferito a mia madre, che oggi compirebbe gli anni)

martedì 27 novembre 2012


Credenze

 

Forse alle nostre spalle sempre

si svolge un mondo possibile

pronto a farsi orizzonte dello sguardo

ed ecco le cose riconosciute per facile memoria

quel filare come altri filari le case come altre case la via

sia o non sia quella dell’infanzia perduta

                o forse, hanno scritto, tutto nasce dal nulla ad immagine

per cieca volontà di obbedire

alla richiesta della mente ingannata

da sé e dal mondo che si fa - e inosservata

la realtà presunta si dissolve e vola

nevischio o sabbia da un telo sbattuto

lasciando una vuota inessenza

 

ma

                non hai visto

(casualità dello sguardo!)  

                               in un retrovisore le montagne

innevate battute da una luce residua

al confine del grigio

nella necessità le montagne che sono 

là già da molto perché devono essere

viste o non viste

da una strada persa di città

 

così natura esiste imprendibile

vicina e viva nella sua lenta morte

tuttavia felice

benché il suo sorriso sia solo

un desiderio del ricordo

e la memoria come il corpo disfà

la propria figura ma resta tormento

 

come le parole necessarie e silenziose ormai

se da un qualche luogo improvvisamente

non irrompano oltre le barriere

delle ore abituate

 

ma ogni rivelazione già l’istante dopo

che ci accompagna è un peso

caricato e deposto in uniforme biancore

chissà a sognare affondando ogni segno

nella sabbia col suo povero mistero

senza valore senza pena

 

ciò che qui è ora impossibile - la nostra necessità

qui dove l’impensabile solamente ha luogo

specchio contro specchio senza vera immagine

sola possibilità dell’immagine

 

(eppure, domani:

dopo molto acquietarsi di spazio percorso

in un luogo non più felice non più reale di questo)

mercoledì 21 novembre 2012

Un’oscura trasparenza che mi parla


La mia prima esperienza della poesia - intendo dire, di lettore di poesia - credo risalga ai miei dodici anni o poco meno, quando, forse per invito dei miei genitori o della scuola, o forse per caso, aprii una libreria a vetrina che c’era in salotto ed estrassi un pesante librone dalla copertina in pelle, la Divina Commedia di Dante Alighieri. Grandi pagine fronteggiate da grandi illustrazioni (le incisioni di Doré), e quei versi che subito mi impressionarono e mi si incisero tanto nella memoria che nel giro di breve tempo avevo imparato il primo canto. Il libro è ancora là, nella casa dove ancora abita mio padre, e in un certo senso non l’ho più abbandonato.

Il mio secondo incontro, ormai necessario e ‘fatale’, perché nel frattempo avevo cominciato a scrivere versi, dapprima comici, delle brevi storielle, poi seri (la prima poesia, ispirata a un compagno di classe), e in casa a parte Dante e poco altro non c’erano libri poesia, fu con due libri regalatimi da un amico di famiglia, un poeta veronese di cui non faccio il nome. Erano raccolte antologiche, di Garcìa Lorca e Jacques Prévert, testo originale e traduzione a fronte. In modo simile, arrivò a breve distanza Pablo Neruda. Stranamente, per quanto li leggessi e rileggessi da cima a fondo, e negli anni abbia poi letto ancora in particolare Lorca, ricordo veramente poco di quelle poesie. Questo forse perché non ricordo, non contava per me ricordare la loro traduzione, che non doveva essere particolarmente bella; ricordo infatti ad esempio dei singoli versi in lingua che mi avevano colpito: come “pour tempérer l’espace / pour espacer le temps”, frase che mi seduceva con la sua musica, il suo concetto e la sua forma, che erano in realtà una cosa sola perfettamente fusa, ed era la musica del Gran Ballo della Primavera che svegliava le strade di Parigi, dava forma allo spazio e dilatava il tempo. Oggi, chissà, potrei giudicarli versi troppo calcolati e altisonanti, ma allora ne avevo bisogno. Perché dare forma allo spazio del mondo temprandolo, forgiandolo (ma anche, nel gioco di parole, mutarlo in tempo, in durata) e insieme dilatare e spazializzare in una forma insieme finita e infinita come una melodia il tempo della nostra vita è esattamente quello che la poesia fa, che deve fare. Un compito (fosse anche ‘solo’ questo) difficilissimo, che anzi appare a chi scrive ogni volta impossibile, tanto che ogni poeta, credo, si sente chiamato e insieme schiacciato da esso.



Ho letto in questi giorni, in un articolo sull’attualità di Dante a firma di un famoso italianista, che la sua poesia è per noi contemporanei come “il Nord del futuro”, come cioè una stella polare, una verticalità lucente cui dobbiamo sempre indirizzarci, perché nello stesso momento in cui ci parla del nostro remoto passato ci indica, nello slancio profetico ed etico della Commedia, ciò che noi saremo, ciò che potremmo essere. E questa forse è un’altra grande cosa che la poesia fa: affondare le sue radici nelle origini ormai spente dell’umano, e trasformando in nuova brace quella cenere da queste radici trarre un nutrimento, una linfa che è la verità di quello che siamo ora e ogni nostra potenzialità. Forse è per questo che un grande poeta italiano, Vittorio Sereni, parla in una sua poesia dei morti (i suoi morti, ma anche gli infiniti morti della storia, e i poeti passati che ogni poeta venera e ama) in questi termini, osservando degli strani bagliori luminosi, “toppe solari” sulla sabbia di una spiaggia tirrenica: “I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, - m’investe della sua forza il mare - /parleranno”. I morti intesi come radici, come matrici del passato che ritorna vivo e libera le sue potenzialità prima inespresse. Il filosofo Walter Benjamin, un ebreo tedesco suicidatosi nel 1940 per sfuggire all’arresto e alla deportazione, chiamava quest’occasione drammatica e imperdibile che il passato rappresenta, la richiesta che il passato ci fa di essere riportato in vita e liberato dalle sue catene di ingiustizia e oblio, “l’adesso del passato”. Anche questo fa la poesia, con i suoi miti antichi e i suoi sogni di realtà, la sua pervicace attenzione alle cose più minute e concrete e i suoi Nord del pensiero, con la sua musica e il suo pianto spezzato e il suo rifiuto di se stessa che la fa rinascere dalle sue ceneri come un’araba fenice. Non ci dobbiamo stupire (io, personalmente, ogni volta che leggo o penso a questa poesia mi commuovo) se il poeta Dino Campana, vagabondando per gli Appennini nel 1913, vede nel cielo dell’alba veleggiare come nuvole le anime degli eroi, i poeti, e piange e prega per unirsi a loro…



La poesia dunque, anche a volersi limitare a quel poco che ho detto, ha di fronte a sé – ogni volta, ogni poesia, ogni giorno, ogni notte illuminata da lucerne o candele o luci artificiali o dallo schermo di un pc – un compito quasi impossibile, (ri)nascere apparentemente dal nulla. Come un tema che venga posto a uno studente, solo davanti al suo foglio bianco, con la testa china. Per questo la poesia ha bisogno di essere anche progetto, pensiero che si sviluppa, lucida insistenza in un cammino ad occhi aperti, un cammino ben scavato nella realtà in cui tutti viviamo e percorso con fatica. Ma, al tempo stesso, senza il suo slancio improvviso, senza quel “primo verso dato dagli dei” come diceva Valéry (ma prima di lui Dante, “la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa”, e prima di lui l’enthusiasmòs degli antichi), senza quella parola vera che emerge da profondità insondabili di cui il poeta per primo ignora la natura e la collocazione, cosa sarebbe la poesia? Sarebbe ancora poesia?



Paradosso vivente della lingua, la poesia è allora proprio “was mich anspricht”, la parola che “parla me”, rivela me a me stesso, invadendomi e attraversandomi come un territorio conquistato, la verità del mio essere e dell’essere che però per la sua alterità radicale al linguaggio comune pare venire da un altro mondo, essere anzi quell’Altro, il paradisiaco “paese sincero”, deviando in parte quel che Beatrice nell’alto dei cieli dice a Dante. Ma è anche come dicevo progetto del pensiero, struttura perfetta, “poliedro dalle tredicimila facce” secondo il poeta russo Mandel’štam nella sua Conversazione su Dante (Mandel’štam che nel 1938 recitava e cantava, traducendoli a memoria in russo, i versi di Dante e Petrarca per alleviare la pena ai compagni di prigionia nel gulag dove sarebbe morto), o con una meravigliosa, fantastica e fantascientifica immagine ancora di Sereni (riferita alla poesia del neogreco Ghiorghos Seferis), “una struttura mobile a più commutatori, attraversata da una questione di luce e percorsa da contiguità laceranti e alternative compresenti” (spero di non aver citato in modo troppo inesatto). Verità della nostra vita e della nostra storia e insondabile, luminescente oscurità, istante di folgore e durata, pensiero che ci pesa dentro e sentimento che capisce il mondo come luogo della lotta dei contrari, sempre rinascenti e rifusi insieme da un eracliteo “fuoco sempre vivente”.



Se la poesia è tutto questo, si capisce come pochi poeti siano in realtà poeti, e come sia difficile – ma anche forse inevitabile, come una condanna – esserlo. A volte la poesia si stanca di se stessa, a volte percorre rasoterra le strade delle città, o infine per ritornare nell’anonimato della realtà di tutti di cui in fondo è parte, sceglie di abbracciare il silenzio, che l’ha accompagnata per tutto il suo cammino.





Luca Bragaja, tema svolto in classe (quasi) per scherzo in un’ora e mezza circa il 13.11.2012, corretto in seguito solo per le citazioni e poco altro.

ottobre 2012

Poesia come possibilità

Come una frustata, sempre,
sull’anima stanca,
infiammata arriva la poesia
e io non ascolto quasi
mai nell’anima respiro
ma l’animo cosciente mi racconta.

estate 2012

Lumachina novella,
nova, stella
inconscia nell’abitato
insonne di notte-rugiada,
alba di ciò che è puro
fine di ogni parola, senso,
non necessario sussurro.

giovedì 1 marzo 2012

La siepe di fianco a me era una cosa sola col vento
cresciuta per anni ancora sulla ringhiera in ferro battuto.
Tremava tutta scavandosi e sull’edera
la scossa del vento freddo risplendeva. Davanti
il marciapiede tra breve terminava. So che c’era
la piazza il traffico gli alberi di sempre la chiesa
ma di quell’istante davanti non ricordo se non luce
e freddo e un senso che non sta nelle parole
e che passava ed era per sempre.

lunedì 6 febbraio 2012

Di quale violenza si parla

Zeno Rocca, il ventenne fino a ieri detenuto con altri ‘No-Tav’ nel carcere padovano e ora agli arresti domiciliari, è stato mio studente durante il triennio del liceo classico. Non ho mai visto in lui quella carica congenita di violenza descritta, con grande sicurezza, dalla giornalista Alessandra Vaccari sulle pagine de “L’Arena” in data 27 e 28 gennaio. Perché ci vuole davvero una grande sicurezza per permettersi di dire che il “filo rosso” che lega i vari episodi della carriera di questo giovane “rischia di trasformare pericolosa ideologia in sangue”! Pericolosa ideologia? Non è chiaro, visto che Zeno non ha mai emesso proclami ideologici, a cosa si riferisca esattamente la giornalista, ma credo che con questa frase lei tradisca semplicemente la propria ideologia, i propri a priori ideologici. Chissà se Zeno si definisce di sinistra, o comunista, o anarchico, o autonomo, o ribelle, o semplicemente non si definisce. Anche fosse, certo, avrebbe forse dovuto riflettere di più sulle modalità della sua protesta, sulla differenza ad esempio tra possibili pratiche nonviolente di disobbedienza e resistenza civile anche decisa e il tirare sassi contro la polizia. Ma in cosa consisterebbe e da dove verrebbe il “crescendo di violenza” di cui parla la Vaccari, forse nelle “performance” o “scontri” al liceo Maffei contro giovani di estrema destra? Se a quelli ci si riferisce per trovare un punto d’inizio, anzi il momento del rivelarsi della pretesa natura criminale di Zeno, posso dire che per quanto ne so si è trattato di un episodio isolato, una rissa seguita ad uno scambio di insulti durante una distribuzione di volantini da parte di alcuni militanti non so se di Blocco Studentesco o altre organizzazioni di destra. Altri episodi simili saranno forse avvenuti altrove: cose evitabili e deprecabili, e su questo né io né altri abbiamo mai avuto dubbi. Ma non mi risulta che questo ragazzo fosse universalmente noto per le sue pratiche violente: al Liceo “Maffei”, tra compagni e insegnanti, come viene testimoniato da molti in questi giorni, era noto al contrario per la sua bontà di carattere e franchezza, e l’unico ‘estremismo’ visibile in lui era quello degli ideali, di un ideale di giustizia non soddisfatto. Ci sono i sassi o il sasso che, sempre che questo venga dimostrato in via definitiva, Zeno avrebbe purtroppo tirato – in un contesto che dagli articoli citati sembra sparire, un contesto fatto anche dei molti lacrimogeni sparati dalla polizia pure ad altezza d’uomo, uno dei quali colpisce Zeno al petto, o di cariche e di manganellate. Ma quali atti di vera, premeditata, grave ed effettiva violenza avrebbe commesso? Lo si è visto ad esempio scagliare molotov? Picchiare selvaggiamente qualcuno, magari in gruppo, o malmenare dei poveracci indifesi, colpendoli a calci una volta caduti a terra? Immagini che nella memoria recente o meno recente dei veronesi sono riferibili a ben altri fatti e personaggi. Ci sono testimoni per fatti di questo tenore riconducibili a Zeno, o ferite da lui con certezza causate? A quel che ho capito, no. Per questo penso che il ribellismo di Zeno, le cui ragioni nell’avversare il progetto dell’alta velocità in Val di Susa, inviso alle popolazioni locali, io condivido pienamente, ma le cui modalità potrei forse non condividere con altrettanta sicurezza, sia stato oggetto di una reazione giudiziaria dettata da ragioni politiche e del tutto sproporzionata ai fatti, e cioè ingiusta, che lo ha inutilmente confinato fino ad ieri in un effettivo isolamento carcerario, per i primi giorni addirittura senza un libro da leggere né poter ricevere lettere. Trattamento da terroristi o capimafia, come altri ha rilevato.
Credo utile però un termine di confronto. Il 15 dicembre 2011 in via IV Novembre un gruppo di bulletti e giovani razzisti ubriachi (nelle case di alcuni di loro saranno trovati simboli fascisti e nazisti e un manganello telescopico) capeggiati da un diciottenne aggredisce, terrorizza, picchia e minaccia di gettare sotto un’auto un tredicenne singalese. Proprio la giornalista Vaccari esce col ‘pezzo’ domenica 18 dicembre, cioè con due giorni di ritardo ma dà il fatto come accaduto venerdì 16 invece che giovedì 15 (un errore non si sa quanto casuale, ma certo non molto professionale), e negli articoli successivi fornisce stranamente molte indicazioni sulla vittima (dove abita, che scuola frequenta, il lavoro della madre) ma non fa trapelare nulla sul maggiorenne capobranco, e l’evidente appartenenza ideologica di alcuni e l’ancor più evidente razzismo, espressi in una carica di violenza che immaginiamo precocemente assorbita attraverso luoghi comuni e diseducazione familiare, viene passata quasi sotto silenzio. Inoltre, riferendo in forma indiretta le parole della madre dell’aggredito (mentre la nonna “piagnucola”, privata dalla scrivente della dignità di un vero pianto) la Vaccari riesce a inscrivere il ragazzino nella categoria del “diverso” per “quella sua pelle troppo colorata che perfino nel suo Paese non è apprezzata”. Come a dire: ma è chiaro, se non è apprezzata là, perché stupirci se viene guardata così male qua da noi? Né le cose vanno molto meglio quanto a contenuti con l’articolo di Fabiana Marcolini del 22 dicembre sempre su “L’Arena”o con quello di Laura Tedesco sul “Corriere del Veneto” del 21 dicembre, vere tribune d’onore per i genitori dei giovani picchiatori e il loro avvocato difensore: i figli non sono razzisti, né legati ad ambienti di destra, il pestaggio è diventato una “lite per futili motivi” e “Non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse succedere”; con tanto di bandiere e manganelli telescopici in camera.... Per Zeno, non si è dato certo altrettanto spazio a dichiarazioni dei suoi genitori o dei suoi ex insegnanti e compagni, nei giorni in cui uscivano su di lui quelle istruttorie e sentenze in forma di articoli carichi di ideologia e preconcetti e deformazioni, e insomma di violenza mediatica. Chiediamo alla giornalista Vaccari: due pesi e due misure? Insisto, chi è gravato dall’ideologia? E la responsabilità di questo modo professionalmente indecoroso di fare giornalismo non è, ovviamente, solo di Alessandra Vaccari, ma anche del direttore del giornale, che ha deciso spazio e impostazione degli articoli: quattro pagine in due giorni! che neanche per Stevanin... Forse parlo a vuoto, rivolgendomi al “giornale di Verona”, cioè di una città che ha dedicato una via (un lungadige, quello dell’università e dell’ex questura!) al picchiatore fascista Nicola Pasetto, tuttora ricordato da molti come grande politico locale, uno che la violenza la praticava davvero. O forse no, visto il ben diverso tenore dell’articolo su Zeno uscito su “L’Arena” di oggi venerdì 10 febbraio a firma di Giampaolo Chavan.