città con fiume

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olio - Paolo Parma

mercoledì 21 novembre 2012

Un’oscura trasparenza che mi parla


La mia prima esperienza della poesia - intendo dire, di lettore di poesia - credo risalga ai miei dodici anni o poco meno, quando, forse per invito dei miei genitori o della scuola, o forse per caso, aprii una libreria a vetrina che c’era in salotto ed estrassi un pesante librone dalla copertina in pelle, la Divina Commedia di Dante Alighieri. Grandi pagine fronteggiate da grandi illustrazioni (le incisioni di Doré), e quei versi che subito mi impressionarono e mi si incisero tanto nella memoria che nel giro di breve tempo avevo imparato il primo canto. Il libro è ancora là, nella casa dove ancora abita mio padre, e in un certo senso non l’ho più abbandonato.

Il mio secondo incontro, ormai necessario e ‘fatale’, perché nel frattempo avevo cominciato a scrivere versi, dapprima comici, delle brevi storielle, poi seri (la prima poesia, ispirata a un compagno di classe), e in casa a parte Dante e poco altro non c’erano libri poesia, fu con due libri regalatimi da un amico di famiglia, un poeta veronese di cui non faccio il nome. Erano raccolte antologiche, di Garcìa Lorca e Jacques Prévert, testo originale e traduzione a fronte. In modo simile, arrivò a breve distanza Pablo Neruda. Stranamente, per quanto li leggessi e rileggessi da cima a fondo, e negli anni abbia poi letto ancora in particolare Lorca, ricordo veramente poco di quelle poesie. Questo forse perché non ricordo, non contava per me ricordare la loro traduzione, che non doveva essere particolarmente bella; ricordo infatti ad esempio dei singoli versi in lingua che mi avevano colpito: come “pour tempérer l’espace / pour espacer le temps”, frase che mi seduceva con la sua musica, il suo concetto e la sua forma, che erano in realtà una cosa sola perfettamente fusa, ed era la musica del Gran Ballo della Primavera che svegliava le strade di Parigi, dava forma allo spazio e dilatava il tempo. Oggi, chissà, potrei giudicarli versi troppo calcolati e altisonanti, ma allora ne avevo bisogno. Perché dare forma allo spazio del mondo temprandolo, forgiandolo (ma anche, nel gioco di parole, mutarlo in tempo, in durata) e insieme dilatare e spazializzare in una forma insieme finita e infinita come una melodia il tempo della nostra vita è esattamente quello che la poesia fa, che deve fare. Un compito (fosse anche ‘solo’ questo) difficilissimo, che anzi appare a chi scrive ogni volta impossibile, tanto che ogni poeta, credo, si sente chiamato e insieme schiacciato da esso.



Ho letto in questi giorni, in un articolo sull’attualità di Dante a firma di un famoso italianista, che la sua poesia è per noi contemporanei come “il Nord del futuro”, come cioè una stella polare, una verticalità lucente cui dobbiamo sempre indirizzarci, perché nello stesso momento in cui ci parla del nostro remoto passato ci indica, nello slancio profetico ed etico della Commedia, ciò che noi saremo, ciò che potremmo essere. E questa forse è un’altra grande cosa che la poesia fa: affondare le sue radici nelle origini ormai spente dell’umano, e trasformando in nuova brace quella cenere da queste radici trarre un nutrimento, una linfa che è la verità di quello che siamo ora e ogni nostra potenzialità. Forse è per questo che un grande poeta italiano, Vittorio Sereni, parla in una sua poesia dei morti (i suoi morti, ma anche gli infiniti morti della storia, e i poeti passati che ogni poeta venera e ama) in questi termini, osservando degli strani bagliori luminosi, “toppe solari” sulla sabbia di una spiaggia tirrenica: “I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, - m’investe della sua forza il mare - /parleranno”. I morti intesi come radici, come matrici del passato che ritorna vivo e libera le sue potenzialità prima inespresse. Il filosofo Walter Benjamin, un ebreo tedesco suicidatosi nel 1940 per sfuggire all’arresto e alla deportazione, chiamava quest’occasione drammatica e imperdibile che il passato rappresenta, la richiesta che il passato ci fa di essere riportato in vita e liberato dalle sue catene di ingiustizia e oblio, “l’adesso del passato”. Anche questo fa la poesia, con i suoi miti antichi e i suoi sogni di realtà, la sua pervicace attenzione alle cose più minute e concrete e i suoi Nord del pensiero, con la sua musica e il suo pianto spezzato e il suo rifiuto di se stessa che la fa rinascere dalle sue ceneri come un’araba fenice. Non ci dobbiamo stupire (io, personalmente, ogni volta che leggo o penso a questa poesia mi commuovo) se il poeta Dino Campana, vagabondando per gli Appennini nel 1913, vede nel cielo dell’alba veleggiare come nuvole le anime degli eroi, i poeti, e piange e prega per unirsi a loro…



La poesia dunque, anche a volersi limitare a quel poco che ho detto, ha di fronte a sé – ogni volta, ogni poesia, ogni giorno, ogni notte illuminata da lucerne o candele o luci artificiali o dallo schermo di un pc – un compito quasi impossibile, (ri)nascere apparentemente dal nulla. Come un tema che venga posto a uno studente, solo davanti al suo foglio bianco, con la testa china. Per questo la poesia ha bisogno di essere anche progetto, pensiero che si sviluppa, lucida insistenza in un cammino ad occhi aperti, un cammino ben scavato nella realtà in cui tutti viviamo e percorso con fatica. Ma, al tempo stesso, senza il suo slancio improvviso, senza quel “primo verso dato dagli dei” come diceva Valéry (ma prima di lui Dante, “la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa”, e prima di lui l’enthusiasmòs degli antichi), senza quella parola vera che emerge da profondità insondabili di cui il poeta per primo ignora la natura e la collocazione, cosa sarebbe la poesia? Sarebbe ancora poesia?



Paradosso vivente della lingua, la poesia è allora proprio “was mich anspricht”, la parola che “parla me”, rivela me a me stesso, invadendomi e attraversandomi come un territorio conquistato, la verità del mio essere e dell’essere che però per la sua alterità radicale al linguaggio comune pare venire da un altro mondo, essere anzi quell’Altro, il paradisiaco “paese sincero”, deviando in parte quel che Beatrice nell’alto dei cieli dice a Dante. Ma è anche come dicevo progetto del pensiero, struttura perfetta, “poliedro dalle tredicimila facce” secondo il poeta russo Mandel’štam nella sua Conversazione su Dante (Mandel’štam che nel 1938 recitava e cantava, traducendoli a memoria in russo, i versi di Dante e Petrarca per alleviare la pena ai compagni di prigionia nel gulag dove sarebbe morto), o con una meravigliosa, fantastica e fantascientifica immagine ancora di Sereni (riferita alla poesia del neogreco Ghiorghos Seferis), “una struttura mobile a più commutatori, attraversata da una questione di luce e percorsa da contiguità laceranti e alternative compresenti” (spero di non aver citato in modo troppo inesatto). Verità della nostra vita e della nostra storia e insondabile, luminescente oscurità, istante di folgore e durata, pensiero che ci pesa dentro e sentimento che capisce il mondo come luogo della lotta dei contrari, sempre rinascenti e rifusi insieme da un eracliteo “fuoco sempre vivente”.



Se la poesia è tutto questo, si capisce come pochi poeti siano in realtà poeti, e come sia difficile – ma anche forse inevitabile, come una condanna – esserlo. A volte la poesia si stanca di se stessa, a volte percorre rasoterra le strade delle città, o infine per ritornare nell’anonimato della realtà di tutti di cui in fondo è parte, sceglie di abbracciare il silenzio, che l’ha accompagnata per tutto il suo cammino.





Luca Bragaja, tema svolto in classe (quasi) per scherzo in un’ora e mezza circa il 13.11.2012, corretto in seguito solo per le citazioni e poco altro.

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