io non so se queste parole siano qui segnate anche da mano e sguardo altrui e in questo spazio inscrivano muta e cieca una storia – una storia qualsiasi e per questo forse indicibile perenne – ma ora vedo che tra le pietre e i fragili muri emerge ologramma levitante dalla valle l’immagine sterminata della città e tocca i miei occhi più si allontana e dilata con le mille vie rettilinee ma i serpeggiamenti oscuri le case bianche cubiche uguali mai uguali con rientranze di cortili giardinetti squallidi calcinati un tremolio di vite come lettere come segni indecifrabili. Sotto la rete insistente della visione una figura cammina un cavo d’acciaio si tende e in alto figure sedute o fiori precipitando indaco e rosso nel nero tentano di ricordare ma non vogliono veramente – ricordare qualcosa che accenna dalla mia memoria qui celata all’immagine ben visibile della città che percorro.
camminare in questa corsia alla lunga può dare questa illusione: i pavimenti ingrommati di bagliori paiono pareti o aggettano tronchi di colonne appena sbozzate versandosi dall’alto colate di magma freddo per sempre, le ombre di persone in movimento sono figure piene immobili di buio, i riflessi vortici di luce sprofondati verso un paradiso al neon – ma nella colonna o stalattite di destra si scava un corridoio animato da un altro riflesso, la parete centrale è la gola e il ventre del pescecane che per luridi scalini ci ritrascina in basso, a sinistra il riposo è l’ombra informe che come un grande tendaggio ci avvolge. L’unica idea certa pare quel grumo di sofferenze scavato al centro dove un volto butterato ha inciso e lasciato di sé solo i solchi, le ferite, i piccoli crateri di una geografia una volta umana, smorfia irriconoscibile e pietà di fisionomia ignota che mi attrae e un poco mi perde.
eppure in fondo qualunque cosa pensi o veda io sono questo spazio non quello a cui mi affaccio e questa storia sempre incipiente scritta su questa minima parete domestica o intravista su questo lontano tratto di orizzonte per coincidenza di vista e visione è questa storia e non quella entro cui un lume sonoro infestato di ali di rondini angeli o pipistrelli come tagli nel gonfiarsi della luce piove su chi cammina e ha viso e collo bruciati dal sole una sigaretta in bocca l’impermeabile verde traslucido di scaglie il suo volume ben definito il mal di schiena per troppo tempo in giro uno squarcio nel costato la spina dorsale deviata una cravatta di geli azzurrini un lungo pesce che risale dal profondo una mano che esce sulla coscia e la fonde. Un buco più ampio nel cielo là sopra dichiara l’inutilità della luce che cade nel pozzo dell’aria e la pienezza del vuoto senza scelta né vera storia.
perché quello che vedi può essere solo un ricordo che guida l’inganno dei tuoi occhi simile in questo alla mia realtà questo ricordare vuoto dove ora io mi trovo e certo mi confonde ecco c’era il sole anche se non caldo anzi un sole smagliante ma l’aria fredda bellissima d’inverno e giochi di ombre proiettate nette sui selciati e marciapiedi di metà mattina così che a fermarsi con gli occhi chiusi e alzare la faccia al cielo e al sole si aveva l’impressione di scaldarsi con un brivido di verità. Credo fosse una piazza ma non giurerei della mia città, pavimentata in grandi pietre chiare senza queste coperture sintetiche da poco per qualche gioco cittadino o fiera. Ma se quel brivido era anticipazione di una gioia come una festa domenicale uno splendore di candide tovaglie e cristalli o il sentimento pungente di una fine – lo dicono quelle carte gettate a terra nel ricordo falsato – non so.
non resta quiete nell’immagine perché il sole di fine pomeriggio getta una lunga ombra scompagnata che volge le spalle a quella di un albero sottile, ma l’ombra si stampa sul piano del terreno su una pavimentazione calda di larghi mattoni forse di cotto così l’immagine ruotata di quarantacinque gradi ti darà l’impressione di cadere – o la voglia di stenderti con lei e dormire. Affari suoi: ha le mani in tasca, porterà stivali, giacca o camicia stretta in vita da una cintura, una strana forma della testa, ma m’impensierisce il denso canale nero la fenditura tangibile di notte che le scorre vicino e accanto ha una sua ombra più flebile e sfumata quasi arrotondata, o forse ho capito è rotondo il terreno e più da vicino è diversa anche la grana è scattata dall’alto del pianeta del satellite arido che stiamo sorvolando mentre ora hai quasi girato attorno alla colonna verso la sicurezza della notte.
dove è una figura di donna in un calice scura foglia in lampada opaca traslucida dalla grana ruvida di punti impurità pioggia di polline nella luce: in alto una notte di memorie e di rinselvate storie si fa percorrere da questo fuoco dai cerchi dai volumi del suo moto da esili pennacchi di pensieri che le hanno srotolato il volto - in basso è l’azzurro che vince recando nel suo fondo l’icona rovesciata. È decollata da quella sciabolata cicatrice con i bordi bianchi che attraversa tutto lo spazio ma resta percorsa da nuvole lievi toccata dal barlume fatuo signora delle bugie e delle fate gambe e caviglie sottili ginocchia austere e sicure. La accompagna una piccola luna buia che dorme una barca ferma palpebra che apre la porta della luce che si apre. Così lei si affaccia dai molti anni passati e ritorna indecisa con quel passo accennato nel riposo – non vero dubbio, io senza storie né lume vado.
e so che le immagini più costanti sono recinti ben chiusi, senza più rapporto con questo tempo. Di loro proviene a sera o nella pietra dell’attimo diurno lo spettro, dissolto quando interseca l’altra luce e intercetta nello sguardo cavo i colpi degli altri morti spettri. Andargli incontro è rivedere quella bandiera che sbatteva alla mattina lucente del mare, il sapore dell’aria le luci fitte ogni sera lungo la costa ricordanti altre luci – quando c’era il futuro? Cose svanite, qui non si vedono. Ora c’è questo stare nudo e frainteso, una figura esposta all’aria pallida, solo il pensiero di un pensiero, eppure: ogni ora ci inganna, ogni giorno la crediamo la stessa e con doppia illusione memoria e presente ci accecano. Verrà forse qualcosa da quella finestra aperta al tempo di fuori, e senza le ipotesi dei nomi il vento muoverà la camicia i capelli già scomposti la polvere che ferma lo spazio angusto.
dopo (quando le cose sono finite e un’esperienza si è chiusa anche se forse poco tempo è passato ma come un secolo per chi non c’era e non ricorda) c’è sempre qualcuno che va per quei luoghi o ci si ferma a guardare chissà che con le mani in tasca e un’aria di solidità con uno più saputo di lui che gli si aggira nervoso davanti e indicando gli dice era qui tra l’erba schiacciata e rigata dal gelo le punte dei rami spezzati i rifiuti - ma non sanno davvero hanno solo letto o sentito e la falda della giacca gli pende dietro come un accenno di livrea o una ridicola coda. Intanto le fronde si muovono nere e chiudono un loro spazio che è anche un tempo sempre esattamente presente di ombre fili formiche per i solchi della corteccia bozzoli di processionarie o uccelli, vento, azzurro che filtra. Ma questo, che c’era quando le cose accadevano, è inutile ed è come non fosse: dura invece la scena delle ombre certe.
mercoledì 27 gennaio 2010
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